Salvatore Quasimodo : Alla notte
Dalla tua matrice
io salgo immemore
e piango.
Camminano angeli, muti
con me; non hanno respiro le cose;
in pietra mutata ogni voce,
silenzio di cieli sepolti.
Il primo tuo uomo
non sa, ma dolora.
Questa breve lirica di Salvatore Quasimodo è inserita in Oboe sommerso, la sua raccolta più «ermetica» (1932).
A proposito dell’Ermetismo, corrente poetica che annoverò tra i suoi maggiori esponenti Ungaretti, Montale e per un periodo Quasimodo, mi piace ricordare uno sferzante giudizio del Flora: “se la poesia è comunicazione, e questa non comunica, è una contraditio in terminis , cioè non è poesia”.
Il tema lirico della sera, qui della «notte», perviene alla estrema e nuda essenzialità del linguaggio poetico, tipico dell’Ermetismo.
Il Poeta utilizza due effetti per forgiare, attraverso ardite associazioni, questo misterioso linguaggio: Parole «pure», prive di qualsivoglia espediente retorico, attingenti alle sue esperienze di vita, ingrediente distintivo del suo sentimento poetico e, in definitiva, emblema del dolore universale.
Qui l’io-poeta adopera un linguaggio che stenta a comunicare, che permane quasi sull’orlo dell’incomprensione, svolgendosi solo attraverso repentine associazioni d’idee.
Dalla notte originaria sale, cioè parla, il poeta; e la notte è solo allusa nel titolo e mai più nominata nel testo; è la notte da cui è scaturita la vita e che di nuovo la risucchia a sé, come in un’attrazione fatale; è il buio ed è il dolore, un dolore, si direbbe, pietrificato ai quattro angoli dell’universo («in pietra mutata ogni voce»).
Egli immagina di ascendere dall’origine della notte dei tempi, dal Caos primordiale, ed esprimere così la condivisione della condizione di eterno dolore degli uomini e dell’intero cosmo.
Come Leopardi, non è un filosofo, ma un compagno di viaggio che può esprimersi solo per analogie, col linguaggio debole, inadeguato del «primo uomo», colui che ebbe della fragilità e del dolore un’esperienza già esauriente.
Il poeta avverte il dolore dell’esistere e appunto se ne duole, «dolora».
Il compito dell’io-poeta è ancora quello di esprimere una verità generale (la condizione primigenia del soffrire degli uomini e di tutto il cosmo); ma egli si esprime attraverso un dire ellittico («in pietra mutata», con ellissi del verbo essere), moltiplicando le analogie, per esempio «silenzio di cieli sepolti», che allude forse alla fine di tutto, o il verbo «camminano» riferito agli «angeli», che riprende il salire attribuito al poeta.
Il suo pianto risuona nel creato ed unifica ogni altra esistenza, gli «angeli» «le cose», «ogni voce»; presenze in un attimo evocate e subito diradate, nell’assenza ormai di un qualunque discorso di ragionamento poetico, totalmente differente dalle precedenti liriche qui trattate.