Dante e la "Poesia dell'Ineffabile" nel Paradiso

Dante e la  “Poesia dell’Ineffabile” nel Paradiso

Tra le tante espressioni usate dai critici nel corso dei secoli per descrivere la straordinaria capacità linguistica e poetica di Dante, ritengo che questa sia davvero la più affascinante.
Spero con queste mie note di facilitare l’approccio di chi legge ad una tematica di non agevole assimilazione.
“Ineffabile”: agg. [dal lat. ineffabĭlis, da in (negazione) e effabĭlis (che si può dire), derivato da effari «pronunciare, dire chiaramente», da ex e fari «parlare»] : Che non si può esprimere con le parole, indescrivibile, inesprimibile, straordinario, inenarrabile.
L’Ineffabile quindi è riferibile soprattutto alla riflessione, alla solitudine, al silenzio.
Lo stesso Dante nell’ Epistola a Cangrande, XXIX, afferma : <… Multa namque per intellectum videmus quibus signa vocalia desunt>
L’intelletto, infatti, vede molte cose che poi non riusciamo a descrivere con le parole; e qui,infatti, Egli vuole affermare la sproporzione tra vis intellettiva e verbum oris.
L’ascesa al Paradiso, perciò,viene anzitutto evidenziata come consapevolezza di una insufficienza mnemonica, e soprattutto espressiva, attraverso le terzine:
< Nel ciel che più della sua luce prende fu’io, e vidi cose che ridire né sa né può chi di là sù discende; perché appressando sé al suo disire nostro intelletto si profonda tanto, che dietro la memoria non può ire.>

In questo primo canto l’autore in più di cento versi tenta di spiegare la difficoltà estrema, non solo nel rappresentare, ma anche nel ricordare quelle esperienze: questo é il grande tema dell’ineffabilità, che percorre l’intero canto.

All’interno di molti canti del Paradiso possono già rinvenirsi cenni all’ineffabile, cioè all’impossibilità umana di descrivere esattamente una visione celeste o un’intensa emozione spirituale:canto X w43-45

” Perch’io lo ingegno e l’arte e l’uso chiami
sì nol direi, che mai s’imaginasse,
ma creder puossi e di veder si brami>;
(Per quanto io faccia appello al mio ingegno, alla mia arte , alla mia esperienza,non potrei mai descriverlo in modo da farlo immaginare, ma si può credere(a ciò che dico) e si deve desiderare di vederlo);

canto XVIIIw10-12
” Non perch’io pur del mio parlar diffidi,
ma per la mente che non può reddire
sovra sé tanto, s’altri non la guidi>
(non perché io diffidi soltanto della mia capacità di descriverlo a parole, ma perché la mente umana non può mai tornare su se stessa, se altri non la guidi>;
XXIII w 23-24:
E li occhi avea di letizia sì pieni
che passar men convien sanza costrutto>;
(e aveva(Beatrice) gli occhi così pieni di letizia, che mi è necessario passare oltre, senza descriverlo a parole);
canto XX Xw22-27:

” Da questo passo vinto mi congedo/
più che giammai da punto di suo tema/
soprato fosse comico o tragedo/
ché, come sole in viso che più trema/
così lo rimembrar del dolce riso/
la mente mia da me medesmo scema.>
(da questo passo mi ritiro vinto, più di quanto sia stato mai superato da qualche punto del suo tema un poeta comico o tragico; perché come fa il sole in un occhio che è più debole, così il ricordo del dolce riso diminuisce in me stesso le mie facoltà mentali)

La poesia del Paradiso si connota perciò per l’impossibilità di esprimere linguisticamente l’esperienza mistica, e costituiva già una costante della poesia giovanile di Dante, secondo un procedimento psicologico illustrato nel Convivio attraverso le chiose sulla canzone Amor che nella mente mi ragiona, che può chiarire meglio l’ineffabilità:

Qui Dante dimostra tutta la sua superba capacità intellettuale e poetica, e descrive uno smarrimento del tutto simile all’alienatio mentis dei mistici, in quanto l’estasi comporta il cedimento della facoltà visiva e razionale, poiché la lingua non è più capace di seguire, ed esprimere, ciò che l’intelletto vede.
Tesa al limite invalicabile delle proprie possibilità, la parola poetica raggiunge la dimensione dell’oblio, sfiorando l’abisso del silenzio e del nulla, nel momento dell’itinerarium mentis ad Deum, in cui l’illuminazione più fulgida viene oscurata dalla nube della non conoscenza, o caligo ignorantiae, secondo la definizione di Dionigi Areopagita.
Anche nell’ultimo canto del Paradiso la nube dell’oblio rappresenta una sorta di passaggio obbligato nell’ascesa verso l’Assoluto, secondo il principio della cosiddetta via negativa, enunciato da Dionigi Areopagita nella Teologia mistica, dove si delinea il tema dell’ineffabilità:

Conseguenza dell’estasi è dunque l’oblio che conduce inevitabilmente alla perdita della vis espressiva, secondo il meccanismo della cosiddetta dilatatio mentis menzionato anche da Riccardo da San Vittore nel De gratia contemplationis, IV, XXIII, fonte dantesca fondamentale in materia di ineffabilità, come rivela l’Epistola a Cangrande .
Il fenomeno rappresentato si realizza essenzialmente nella perdita della memoria, e per tale ragione l’oblio può essere considerato l’elemento costitutivo della visio mystica, nonché sorgente primaria dell’impossibilità del dire.
Al culmine dell’estasi il poeta vorrebbe comunicarci l’indicibile, ed attraverso la retorica dell’excusatio esprime la difficoltà della rappresentazione:

” Da quinci innanzi il mio veder fu maggio
che il parlar mostra, ch’a tal vista cede,
e cede la memoria a tanto oltraggio .>

Il fulgore della visione vince la facoltà mnemonica, traducendosi in accecamento e oblio in seguito all’oltraggio, che può essere interpretato quale eccesso o dismisura rispetto alle potenzialità espressive del Poeta: riemerge quindi chiaramente il tema dell’ineffabilità, poiché quanto più noi ci eleviamo verso l’alto, tanto più le parole si contraggono per la visione di insieme delle cose intelligibili, e penetrando nella caligine che sta sopra all’ intelligenza, troveremo non la brevità delle parole, bensì la mancanza assoluta di parole e pensieri.

A questo punto però il Poeta perviene ad una scelta retorica del tutto originale rispetto alla tradizione della cosiddetta teologia negativa, che rinunciava ad esprimere gli attributi divini, e si realizza pienamente nella straordinaria capacità metaforica, la quale genera immagini che possono essere ricondotte ancora una volta al binomio di memoria e scrittura:

” Qual é colui che sognando vede,
che dopo il sogno la passione impressa
rimane, e l’altro a la mente non riede,
cotal son io, ché quasi tutta cessa
mia visïone, e ancor mi distilla
nel core il dolce che nacque da essa.
Così la neve al sol si disigilla;
così al vento ne le foglie levi
si perdea la sentenza di Sibilla.>
Dante enuncia, in questi versi, l’idea della labilità della scrittura, prima attraverso
la metafora della mente come tavoletta di cera che non riesce a conservare il
ricordo preciso del sogno, confermato poi dal disigilla in riferimento alla neve che perde la propria forma, quindi l’immagine delle foglie che disperdendosi rendono vano ogni sforzo di decifrare i segni della scrittura.

Che straordinaria capacità espressiva, paragonabile forse solo a Shakespeare e a qualche altro Grande della Letteratura mondiale!

E così, bloccato dall’oblio e conscio dell’inadeguatezza delle proprie risorse, il poeta invoca la possanza della lingua, appellandosi alla divinità per ottenere la virtù della memoria:

” O somma luce che tanto ti levi
dai concetti mortali, a la mia mente
ripresta un poco di quel che parevi,
e fa la lingua mia tanto possente,
ch’una favilla sol de la tua gloria
possa lasciare a la futura gente;
ché, per tornare alquanto a mia memoria
e per sonare un poco in questi versi,
più si conceperà di tua vittoria>

In questo modo la parola dantesca, costantemente sospesa tra ricordo e assenza, raggiunge la dimensione dell’oblìo, che in Dante non coincide con il nulla, poiché è la vigilanza stessa della memoria.
La poesia del Paradiso si sostiene proprio su questo paradosso,che nell’indicibile si manifesta il dire, attraverso un intreccio di memoria e oblio, che consente al Poeta di cantare l’esperienza del divino.
La poesia dell’ineffabile, quindi, riesce a superare la nebbia della non conoscenza, raggiungendo l’infinito attraverso ardite immagini analogiche rievocanti l’idea della precisione geometrica.
E così, al termine dell’itinerario di redenzione, il poeta vince la sfida con l’inesprimibile , e penetrando nella tenebra luminosa dell’oblio evidenzia il mistero insondabile della scrittura.

Ripropongo quanto S. Battaglia ha scritto in merito:
<…. Il poeta è qui chiamato a sceneggiare la trascendenza divina e l'ineffabilità dei suoi misteri. Ma com'è possibile figurarla nei termini del linguaggio umano se essa per definizione ne è il superamento e la sublimazione? In questa antinomia risiede la fondamentale difficoltà e insieme la qualità linguistica della terza cantica. Al poeta toccherà esprimere l'incomunicabile. L'impresa dello stile che ora Dante progetta sembra assurda, è al di fuori d'ogni realizzazione. Perché non appena l'intelletto e la parola presumeranno di descrivere il Paradiso e di ridurlo in termini espositivi, il Paradiso stesso cesserà di fruire della sua natura trascendente, sovrumana, misteriosa. Al poeta resterà questo compito: non già di rappresentare il Paradiso nella sua inattingibile verità, ma di farne intravedere l'intatta eternità e l'immensa beatitudine con i mezzi impari di cui dispone la parola dell'uomo. Il nodo lirico del Paradiso e del suo linguaggio consiste nell'esprimere questa situazione, che prima di essere stilistica è morale: cioè, l'interna intuizione del Paradiso come simulacro esemplare dell'anima, e, nello stesso tempo, la struggente incapacità a raffigurarne realmente l'essenza. Nel Paradiso è la stessa realtà che dovrebbe risultare abolita o superata. II poeta si trova, pertanto, al limite del reale. Immateriale, invisibile, assolutamente mistico, il Paradiso è il regno della pura intuizione, che si realizza unicamente nei silenzi incommensurabili ed essenziali dello spirito: «lì si vedrà ciò che tenem per fede, / non dimostrato, ma fia per sé noto / a guisa del ver primo che l'uom crede». Questo dramma stilistico è forse la componente più lirica della terza cantica. Rimane il mistero di ciò che si è contemplato nell'interiorità spirituale: «... e vidi cose che ridire / né sa né può chi di lassù discende». Perché accostarsi al Paradiso e alla sua visione equivale ad uscire dalla natura umana e rompere l'involucro dei sensi: «trasumanar significar per verba / non si porìa». Infatti il trapasso dal mondo terreno è istantaneo, fulmineo: «Tu non se' 'n terra, sì come tu credi: / ma folgore, fuggendo il proprio sito, / non corse come tu ch'ad esso riedi». Il cimento espressivo è strenuo, estremo, al limite delle possibilità del linguaggio. […] E di fronte all'angustia terrestre dei primi due regni, il Paradiso si dispone nella prospettiva delle sfere celesti, occupando l'intero sistema planetario: paesaggi immacolati e senza limiti, il cui linguaggio è luce e moto, musica e coro, ordine e armonia. Il Paradiso s'identifica con il firmamento, si converte nell'universo: partecipa dell'infinita presenza di Dio nel cosmo. E, pertanto, il viaggio di Dante si sviluppa nella successione ascensionale dello zodiaco, dal cielo della luna fino all'Empireo, dove fiorisce la candida rosa dei beati. Qui sono tutte le anime del Paradiso, raccolte nel mistico fiore, in un unico consesso, di cui nei singoli cieli Dante ha conosciuto le postille, le loro trasparenze individuali. Ma ora tutte concorrono al trionfo supremo e inesauribile di Dio, che Dante concepisce in un'essenza totale, illimite, inattingibile. Forse questa di Dante è la concezione più austera della divinità unica e incommensurabile, universa e inestimabile. Il poeta l'ha resa nella sua più sgomenta profondità, nel suo mistero insondabile. Il Dio di Dante è la categoria mentale dell’inconoscibile>

E prima ancora aveva scritto B. Croce :
<[…]E, in questa terza parte, nelle rappresentazioni paradisiache, il poeta avverte il bisogno, e con pari candidezza lo soddisfa, di rialzare l'effetto con le iperboli negative; per esempio, con l'osservare che le bellezze della natura e dell'arte, tutte adunate, varrebbero niente «ver lo piacer divin che mi rifulse», o che, comparata al suono della lira da lui udita, qualunque più dolce melodia terrena «parrebbe nube che squarciata tuona»; e, mezzo rettorico anche meno efficace, con le continue proteste, che ciò che egli vede è indescrivibile e ineffabile. La luce, la gioia, che egli vorrebbe pensare e rappresentare, è cosi pura, perfetta e santa, cosi assoluta, che si converte sovente in un'astrattezza, e, come tale, non si può rappresentare e neppure pensare. […]>
Sono, queste, riflessioni ed intuizioni straordinarie, degne , a mio modesto avviso, di essere conosciute ed apprezzate.
Domenico Crea



4 Convivio, III, III, 13. Cfr. Amor, che ne la mente mi ragiona, vv. 9-18: .E certo e. mi conven lasciare in pria, / s.io vo. trattar di quel ch’odo di lei, / ciò che lo mio intelletto non comprende; / e, di quel che s’intende / gran parte, perché dirlo non savrei. / Dunque, se le mie rime avran difetto, / ch’entreran ne la loda di costei, / di ciò si biasmi il debole intelletto/ e .l parlar nostro, che non ha valore / di ritrar tutto ciò che dice Amore..

Cnfr G. Prampolini in Saggio sulla Vita Nuova., Il Mulino, Bologna 1968

2 Dionigi Areopagita: Teologia mistica, tr. it. di P. Scazzoso in Tutte le opere, Rusconi,
Milano 1981
3 Per l.influenza di Riccardo da San Vittore e altri mistici su Dante si può riprendere E.G. Gardner, Dante and the Mystics, J.M. Dent & Sons Ltd., London 1913. – M. Blanchot, .Oublieuse Mémoire., tr. it. di R. Ferrara, in L‘infinito intrattenimento, Einaudi, Torino 1977.
O. Ducrot: Dicibile/Indicibile., in Enciclopedia, vol. IV, Einaudi, Torino 1978,
Cfr. M. Colombo, Dai mistici a Dante: il linguaggio dell’ineffabilità, La Nuova Italia, Firenze 1987, e il Benjamin Major di Riccardo da San Vittore: Dante e la retorica dell’oblio , Einaudi, torino,1991- M. Corti, Percorsi dell’invenzione. Il linguaggio poetico e Dante, Einaudi, Torino 1993.
4 F. Rigotti, Il velo e il fiume. Riflessioni sulle metafore dell’oblio, in .Iride., n. 14, 1995
5G. Carugati, Dalla menzogna al silenzio. La scrittura mistica della .Commedia. di Dante, Il Mulino,
P. Valesio, Ascoltare il silenzio. La retorica come teoria,Il Mulino, Bologna 1986.
M.A. Coppola, in Geometria e memoria. Lettera e allegoria nel Medioevo,
a c. di L. Ritter Santini, Il Mulino, Bologna 1985
6 (da Esemplarità e antagonismo nel pensiero di Dante, Napoli, Liguori 1967).

7 (da La poesia di Dante, Bari, Laterza 1940)




















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