I BRETTII- Parte 2^

I Brettii, nostri Progenitori (2^ parte)
Brevi Note sul “De antiquitate et situ Calabriae”di Gabriele Barrio
(Francica (VV), 1506 circa – Francica, 1577 circa )


Per l’etimologia dei Brettii, Barrio risalì per l’etimo alla voce Urot; mutatasi nel tempo la U (V) in B, dal esso nome sarebbe derivato Brutii, poi i Greci trasformarono la O in E, e li chiamarono Brettii (o (Bretii), attribuendo loro Brettos come padre .
Il dato interessante è che l’etimo originario, Urot, significherebbe “Stalle de¬gli armenti”, che ben si addice a un popolo di pastori.
Nell’identificare i Brettii con gli Ausoni (o Aurunci o Aschenazi), il Barrio ammise loro una antichità considerevole.
A proposito degli Ausoni (o Aurunci o Aschenazi) egli ha dedicato loro il capitolo introduttivo al De antiquitate et situ Calabriae.
Questi sarebbero, secondo le tradizioni traman¬dale dagli storici, i primi abitanti dell’Italia, così chiamati dal nome Ausone, personaggio mitologico, figlio di Ulisse e Circe o Calipso.
Quando Enotro giunse alle terre di Calabria, le trovò da questi abitate.
Così narra Dionigi di Alicarnasso: Gli Arcadi, primi tra gli Elleni, attraversato l’Adriatico si stanziarano in Italia, condotti da Enotro, figlio di Licaone, nato diciassette generazioni prima della guerra di Troia […], che giunse all’altro mare, quello che bagna le regioni occiden¬tali d’Italia. Questo si chiamava Ausonio dagli Ausoni che abitavano le sue rive; […] e fondò sulle alture piccoli centri abitati vicini gli uni agli altri, secondo la forma di insediamento consueta tra gli antichi. E la regione occupata, che era vasta, fu chiamata Enotria ed enotrie tutte le genti su cui regnò (I, 11, 2-4; 12, 1).
La leggenda narra che Enotro, figlio del re dell’Arcadia, Licaone e del¬la sua sposa Cillene, nipote quindi di Pelasgo e dell’oceanina Melibea, non soddisfatto della parte a lui spettata, nella spartizione del Peloponneso, de¬cise di emigrare con il fratello Peucezio e giunse sulle sponde dell’Italia, da intendersi come parte dell’odierna Calabria , che da lui prese il nome di Enotria.
Ma in questo caso sorgeva il problema della paternità Lucana sui Brettii, nominata e confermata da molti scrittori antichi.
Al fine di avvalorare la sua convinzione sulla vetustà dei Brettii, Barrio chiamò in causa la confusione creatasi negli autori antichi riguardo le due regioni della Brettia e della Lucania, delle quali i confini e le zone di ap¬partenenza troppo spesso sono state mal precisate e mai definite con certezza e ordine: a tale errore sarebbero incorsi Strabone, Plutarco, Virgilio, Servio e Tertulliano.
Risolta dunque la questione della discendenza dai Iucani, dovuta semplicemente a un malinteso, il Nostro fu in grado di affermare con certa sicurezza che quei pastori, quanti siano stati, fondarono la repubblica dei Brettii dai resti stessi degli Ausoni, ed i Greci li chiamarono Brettii (pp. 30-31) .
Relativamente al comportamento delle città brettie della Calabria, Barrio ne misurò e accentuò il valore una per una e l’elenco delle principali città comprendeva: Reggio, Locri, Caulonia, Crotone, Petelia, Cosenza, Pandosia, Thurii, Temsa, Terina, Vibone. Locri e Caulonia furono assediate dai Cartaginesi, subendo un duro attacco alle città e devastazioni nel territorio circostante.
A Crotone ci fu una spaccatura: plebe e ottimati costituirono due fazioni distinte, una filo cartaginese capitanata dal popolo e una fedele a Roma, della quale faceva parte la nobiltà.
Anche Petelia fu protagonista di una strenua resistenza e di una stoica fedeltà all’ Urbe, ma con¬sumata dalla fame, alla fine la città, meritevole di plauso, fu costretta a soc¬combere, e nell’estate dello stesso anno Cosenza e Pandosia, assieme ad altri piccoli centri, tra cui Terina, si sottomisero volontariamente a Cartagine.
Ma la defezione fu di breve durata; soltanto l’anno dopo, narra Livio, «nel Bruzio, dei dodici popoli che l’anno precedente erano passati ai Carta¬ginesi, i Cosentini e gli abitanti di Terina ritornarono all’alleanza con i Ro¬mani» .
Livio, nel XXV libro scrive: .
È evidente che una punizione così terribile fu sull’onda della vendetta cartagine¬se, in quanto le città rimasero fedeli a Roma, in caso contrario il condottie¬ro africano non avrebbe avuto motivo alcuno di distruggere i due centri sulla costa tirrenica.
Ultimi della lista, i Vibonesi patirono le devastazioni dei campi, pur di non passare al versante nemico.
In seguito i Romani de¬dussero sul sito della città vuota una colonia.
Cosa dunque era avvenuto? Con molta probabilità gli abitanti di Hipponion furono sbaragliati dalla for¬za d’urto punica, che trovò, ancora una volta, una cittadina deserta, e tale rimase a lungo, fino a quando Roma non prese la decisione di farne una colonia, popolandola nuovamente.
In conclusione cosa resta della tanto ignominiosa e conclamata “defezione dei Bruzi”? Solo una serie di eventi che costrinse una minima parte dei Brettii a mutare bandiera, per di più, sovente, spinti dal comportamento, non troppo limpido, dei soldati romani.
Fu poi la volta di Locri, dove le fonti non rammentano scontri, e la città avrebbe dovuto forzatamente scegliere un cambiamento di fronte. È ancora Livio a raccontare quanto accadde: La città si preparava all’attacco punico accumulando vettovaglie, legna e tutto il necessario a una resistenza ad oltranza.
Il comando dell’azione punico-brettia fu affidato al cartaginese Amilcare, il quale adottò una formula adatta alla situazione: molte persone inermi e disarmate nei campi, un piccolo nucleo di uomini all’interno della cinta muraria.
Ai cavalieri africani fu ordinato di disperdere la massa sparsa nelle campagne, senza colpo ferire, al fine di tagliarla fuori dalla città.
La coorte bruttia fu quindi inviata presso la roccaforte per negoziare con i Locresi.
In un primo momento sembrò che l’assemblea locrese non inten¬desse scendere a patti con i nemici, ma in breve la decisione fu un cambia¬mento di rotta, optando per la resa, non senza aver salvaguardato l’incolu¬mità della guarnigione romana, capitanata da L. Atilio, fatta imbarcare di nascosto dal porto di Locri alla volta di Reggio.
Gli accordi tra Locri e Punici si basarono sul diritto: Annibale concesse che la città mantenesse le proprie leggi e il controllo del porto .
Il mancato saccheggio e la liberalità dimostrata dai Cartaginesi provo¬carono il malcontento dei Brunii, bramosi di terre e di conquiste, i quali tentarono di stornare l’interesse verso Crotone.
L’antica polis greca aveva perso molto del suo splendore, un tempo ricca e potente era al tempo malridotta e indifesa, ma malgrado le tristi condizioni, rappresentava una mira dei Bruttii, desiderosi di razzie e bottino ancor più dei Cartaginesi .
La questione si risolse ancora una volta per vie diplomatiche, in quanto i Crotoniati non sopportavano di mescolare le pro¬prie antiche tradizioni, la lingua, le leggi a una entità straniera, oltretutto disprezzabile come quella bruttia.
Alla fine giunsero nella roccaforte am¬basciatori Locresi, con il placet di Annone e il benestare di Annibale, con la proposta di trasferire i Crotoniati a Locri.
Piuttosto che tentare la difesa a oltranza e concludere in un bagno di sangue come accadde a Petelia, i Crotoniati decisero di imbarcarsi alla volta di Locri e la città fu evacuata .
La riscossa di Roma, che godeva di risorse umane e militari ingenti, non lardò ad arrivare, portando la guerra in terra d’Africa con un esercito guidato da Scipione, in seguito detto l’Africano, e sconfìggendo Annibale.
Alla con¬clusione delle campagne annibaliche, Roma ebbe di nuovo il controllo della penisola, e la sorte dei Brettii, colpevoli di tradimento e tenuti a bada con reiterate opera-zioni punitive, non fu certo delle migliori: per esempio essi furono privati di una parte della Sila, preziosa per la fornitura di pece e di legname.
Questa è una possibile lettura dei fatti, che per certi versi non si discosta da quella, forse un po’ troppo campanilistica, del Barrio, il quale, nel suo tentativo di riscatto totale, ha forzato l’interpretazione delle fonti a favore della sua tesi.
Occorre aggiungere poi che sulle testimonianze liviane c’è una certa divergenza di opinione tra gli studiosi moderni.
Il Barrio “inventa” la Calabria come regione unitaria, definita geograficamente e culturalmente, in quanto fino ad allora essa era una terra dove erano transitati e vi convivevano popoli e culture diverse: Enotri, Bretti, Ausoni, Pelasgi, e naturalmente greci che aveva segnato uno dei periodi di maggior splendore con la creazione della Magna Grecia, dove fulgevano le repubbliche di Locri, Crotone e Sibari.
Nulla era rimasto di tutto questo al tempo di Gabriele Barrio!
Secondo Giuseppe Galasso nel Cinquecento la Calabria era semisederta: la popolazione complessiva si aggirava sui centomila individui per effetto delle guerre e devastazioni: le incursioni saracene, le campagne di riconquista dei bizantini e poi l’arrivo di normanni, svevi, angioini ed aragonesi.
Ciascuno aveva portato rovine e morte, tanto che coloro che venivano catturati e ridotti in schiavitù dai turchi spesso preferivano tentare un impossibile riscatto sociale tra gli infedeli piuttosto che ritornare sotto il potere dei baroni.
Il Barrio fu l’unico tra i menzionati a denunciare la prepotenza dei baroni, assimilati ai “Lestrigoni campani per l’inesauribile sete e l’inesausta avarizia si nutrono ogni giorno delle fatiche dei mortali”, e lo stato di miseria e prostrazione in cui avevano ridotto la popolazione. “La Calabria è travagliata non solo con le ordinarie esazioni, ma è vessata anche con ingiuste e gravi estorsioni. … Per questo motivo città e villaggi sono privi di abitanti e i campi di molte zone non sono lavorati”, così scriveva.
Eppure, questo libro così prezioso non ha mai avuto l’attenzione che meritava: mai un’edizione, un commento, uno studio sistematico; una sola traduzione e per di più molto discutibile (di E. A. Mancuso, (Gab. Barrii Francicani De antiquitate et situ Calabriae. Libri quinque. Romae: apud Iosephum de Angelis, 1571).
Barrio tentò subito un capillare lavoro di revisione, mai completato a causa della morte, ma di cui resta traccia in un codice vaticano (il Vat. Lat. 10908) e di questa copia ne restano tracce conservate alla Biblioteca Angelica di Roma.
Il De antiquitate è diviso in cinque libri, il primo dei quali è una sorta di archeologia che fa da premessa all’opera, presentandone le coordinate essenziali: i tempi mitici delle origini della Calabria, la sua collocazione geografica, i tratti identitari.
Definiti confini e posizione geografica, Barrio dichiara subito l’antichità della sua terra: «Est scilicet Calabria omnium Italiae regionum vetustissima a diluvio quidam inhabitari coepta» (I, 1, p. 3).
Primo suo abitatore fu uno dei discendenti di Noè, Askenaz, cui è attribuita la fondazione di Reggio.
È proprio nel segno dell’eccezionalità infatti che i diversi elementi del vivere comune entrano in relazione fra loro: la Calabria diventa in qualche modo culla dell’umanità; il mitico progenitore sceglie la terra di Reggio per la sua meravigliosa feracità, che a sua volta genera speciali condizioni di vita.
Askenaz si ferma lì «loci amoenitate captus» (I, 1, p. 4). Poi, i suoi discendenti si stabiliscono nel Lazio, fondandovi una nuova città (ibid.), ulteriore riprova del legame privilegiato della terra calabra con Roma.
Così, il carattere superlativo della regione sta tutto nel suo più antico nome, Auxonia, «ab auxo verbo Graeco id est augeo», perché «lì sempre è accresciuta l’abbondanza delle cose» (I, 2, p. 5). E lo stesso nome più recente di Calabria verrebbe da «calon, quod bonum, pulchrum et honestum significat, et brio, id est emano et scaturio», per il fatto che essa è piena di ogni bene (I, 8, p. 16).
Anche il nesso “Magna Grecia” (identificata da Barrio con la sola Calabria), rende, nell’attributo, la fecondità della regione e la moltitudine degli uomini che la abitano.
Il suo genio ed i suoi studi predominanti furono per le antichità del suo paese, e impiegò moltissimi anni in viaggi e ricerche tanto in Calabria, quanto in Roma,
L’opera di Barrio si identifica con la Calabria stessa; è una storia e una geografia della Calabria vista con gli occhi di un calabrese.
Il De antiquitate non era storia neutra, e neppure oggettiva descrizione della Calabria, anzi, è un discorso decisamente “di parte”, quello che Barrio annuncia al lettore attraverso una lettera al Sanseverino.
Che ovviamente è quella che l’autore vede e vuole a sua volta mostrare ai propri lettori e di ciò bisogna tener conto quando si parla, ad es., del mito di una Calabria felix del passato, contrapposta alla decadenza del presente .








1 Idem
2 Idem
3. M. Intrieri, A. Zumbo, I Brettii, Rubettino, 1997
4 L.ucìana De Rose: Cosenza, “faro splendidissimo di cultura”. L’Atene della Calabria e i Brettii raccontati da Gabriele Barrio

5 Livio, XXIV, 1,1-13.

6 Livio, XXIII, 30, 7-9.
7 Livio, XXIV, 3,9-15.
8 P. Ramondetti : Tito Livio: Storia di Roma libri XXI-XXV, UTET, Torino 1981.

9 Biblioteca Angelica (Roma), Cod. GG. 3.35, interno 2, ff. 1-24 (Annotationes D.ni Sertorii Quattrimani in Barrium).

10 F. RUSSO, Regesto Vaticano, cit., vol. IV, Roma, Gesualdi, 1978, n. 21311;

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