RIMBAUD : Un altro "Poeta (un pò) maledetto"

Jean Arthur Rimbaud : Un altro” Poeta (un po’) maledetto”
Jean Arthur Rimbaud nacque a Charleville, nelle Ardenne, il 20 ottobre del 1854.
Il futuro poeta si dimostrò precocissimo, al punto che gli fu concesso di frequentare tre classi contemporaneamente. Cominciò intanto a scrivere versi: del 1869 sono alcuni poemetti in alessandrini composti in latino e la sua prima lirica in francese.
All’inizio del 1871, partì diretto a Parigi, ma, completamente privo di mezzi, dovette ancora una volta ritornare a Charleville, dove la sua prima stagione poetica si concluse, nell’estate, con il poema simbolico “Il battello ebbro”, uno dei suoi capolavori.
Nel 1871, Rimbaud iniziò la sua corrispondenza con Verlaine che, nel settembre del medesimo anno, lo invitò nella sua casa di Parigi: Fu l’inizio di un’intensa amicizia particolare, caratterizzata da violente rotture e riconciliazioni, vizi (alcol e droghe), episodi drammatici.
I due poeti trascorrevano per lo più il loro tempo nei caffè del Quartiere latino o alle riunioni del Circolo dei “vilains bonshommes”, i cui membri componevano versi parodici o parnassiani, a volte assai spinti, che venivano raccolti nel cosiddetto Album detto della Malora.
Nel marzo 1872, dopò che i rapporti fra i coniugi Verlaine si erano ulteriormente inaspriti a causa della presenza del giovane poeta, Rimbaud fu costretto a tornare a Charleville, dove rimase alcuni mesi durante i quali compose le poesie, particolarmente ermetiche, raccolte con il titolo di Ultimi versi, che rivelano l’influsso di Verlaine nel rifiuto della prosodia classica e nell’uso del vers impair.
Alla fine di maggio, Verlaine richiamò l’amico a Parigi e, di fronte alle crescenti difficoltà che nacquero con Mathilde Verlaine, i due amanti partirono per il Belgio e poi, all’inizio di settembre, per l’Inghilterra.
A Natale, Rimbaud tornò a Charleville lasciando l’amico solo a Londra, ma poi dietro richiesta di Verlaine lo raggiunse di nuovo, ma fu Verlaine, questa volta, a partire precipitosamente, lasciando Rimbaud completamente privo di mezzi, nella speranza di poter incontrare a Bruxelles la moglie e riconciliarsi con lei.
Dopo il fallimento di questo incontro, Verlaine si rivolse nuovamente a Rimbaud che lo raggiunse in Belgio nel 1873, ma ormai deciso ad abbandonarlo per ritornare a Charleville: Verlaine gli sparò ferendolo lievemente ad un polso, e venne condannato a due anni di carcere, più per l’accusa di sodomia che per la gravità delle lesioni.
In seguito, Rimbaud visse a Londra, dove, nel 1874, compose un’altra opera in prosa poetica.
Dopo il 1874 o ‘75 rinuncio definitivamente alla letteratura, dedicandosi allo studio delle lingue e si trasferì a Stoccarda, quindi a Milano, dando lezioni di lingue o ospite presso amici.
In seguito andò in Egitto, poi a Cipro, dove lavorò come sorvegliante in una cava di pietra; fu poi mercante per una ditta francese e, dal 1880, visse tra Francia e Africa.
Intanto era divenuto mercante d’armi, aveva aperto in Africa un’agenzia commerciale ed organizzava traffici di schiavi.
Nel 1891, colpito da un tumore al ginocchio, decise di tornare in Francia e sbarco a Marsiglia, ma la gamba dovette essere amputata. Morì il 10 novembre l89l.
Il battello ebbro
Mentre discendevo i Fiumi impassibili,
Non mi sentii più guidato dai bardotti:
Pellirossa urlanti li avevano bersagliati
Inchiodandoli nudi ai pali variopinti.
Ero indifferente a tutto l’equipaggio,
Portavo grano fiammingo o cotone inglese.
Quando coi miei bardotti finirono i clamori,
Mi lasciarono libero di discendere i Fiumi.
Nello sciabordio furioso delle maree,
Io l’inverno scorso, più sordo del cervello d’un bambino,
Correvo! E le Penisole andate
Non subirono mai sconquassi più trionfanti.
La tempesta ha benedetto i miei marittimi risvegli.
Più leggero di un sughero ho danzato sui flutti
Che si dicono eterni avvolgitori di vittime,
Dieci notti, senza rimpiangere l’occhio insulso dei fari!
Più dolce che per il bimbo la polpa di mele acerbe
L’acqua verde filtrò nel mio scafo d’abete
E dalle macchie di vini azzurri e di vomito
Mi lavò disperdendo l’ancora e il timone.
E da allora mi sono immerso nel Poema del Mare,
Intriso d’astri, e lattescente,
Divorando gli azzurri verdi; dove, relitto pallido
E rapito, un pensoso annegato a volte discende;
Dove, tingendo a un tratto le azzurrità, deliri
E ritmi lenti sotto il giorno rutilante,
Più forti dell’alcol, più vasti delle nostre lire,
Fermentano gli amari rossori dell’amore!
Conosco cieli che esplodono in lampi, e le trombe
E le risacche e le correnti: conosco la sera,
L’Alba che si esalta come uno stormo di colombe!
E a volte ho visto ciò che l’uomo ha creduto di vedere!
Ho visto il sole basso, macchiato di mistici orrori,
Illuminare lunghi coaguli viola,
Simili ad attori di antichissimi drammi,
I flutti che lontano rotolavano in fremiti di persiane!
Ho sognato la verde notte dalle nevi abbagliate,
bacio che sale lento agli occhi dei mari,
la circolazione di linfe inaudite,
e il giallo risveglio e blu dei fosfori cantori! […]
Ho visto fermentare enormi stagni, reti
dove marcisce tra i giunchi un Leviatano!
Crolli d’acque in mezzo alle bonacce
e in lontananza, cateratte verso il baratro!
Ghiacciai, soli d’argento, flutti di madreperla, cieli di brace!
E orrende secche al fondo di golfi bruni
dove serpi giganti divorati da cimici
cadono, da alberi tortuosi, con neri profumi! […]
Quasi fossi un’isola, sballottando sui miei bordi litigi
e sterco d’uccelli, urlatori dagli occhi biondi.
E vogavo, attraverso i miei fragili legami
gli annegati scendevano controcorrente a dormire!
Io, perduto battello sotto i capelli delle anse
scagliato dall’uragano nell’etere senza uccelli,
io, di cui né Monitori né velieri Anseatici
avrebbero potuto mai ripescare l’ebbra carcassa d’acqua
libero, fumante, cinto di brume violette.
o che foravo il cielo rosseggiante come un muro
che porta, squisita confettura per buoni poeti,
i licheni del soie e i moccoli d’azzurro;
io che correvo, macchiato da lunule elettriche,
legno folle, scortato da neri ippocampi,
quando luglio faceva crollare a frustate’
i cieli oltremarini dai vortici infuocati;
io che tremavo udendo gemere a cinquanta leghe
la foia dei Behemots e i densi Maelstroms,
filando eterno tra le blu immobilità,
io rimpiango l’Europa dai balconi antichi!
Ho veduto siderali arcipelaghi! ed isole
i cui deliranti cieli sono aperti al vogatore:
E’ in queste notti senza fondo che tu dormi e ti esìli, milione d’uccelli d’oro, o futuro Vigore?
Ma è vero, ho pianto troppo! Le Albe sono strazianti.
Ogni luna è atroce ed ogni sole amaro:
l’acre amore m’ha gonfiato di stordenti torpori.
Oh, che esploda la mia chiglia! Che io vada a infrangermi nel mare!
Se desidero un’acqua d’Europa, è la pozzanghera
nera e fredda dove verso il crepuscolo odoroso
un fanciullo inginocchiato e pieno di tristezza, lascia
un fragile battello come una farfalla di maggio.
Non ne posso più, bagnato dai vostri languori, o onde,
di filare nella scia dei portatori di cotone,
né di fendere l’orgoglio di bandiere e fuochi,
e di nuotare sotto gli orrendi occhi dei pontoni.
L’ebbrezza del battello non deriva dall’alcool, ma dall’assoluta libertà e dalla rinnovata capacità di contemplare con occhi vergini gli spettacoli naturali più incredibili e rari, al di fuori di ogni nozione usuale di tempo e di spazio, al di là di ogni limite di verosimiglianza.
Tuttavia l’esperienza incalzante di mondi e realtà così inconsueti fiacca il Battello che si sente ormai inadeguato a continuarla ed è cosciente che ci vorrebbe per ciò ben altro vigore; né d’altra parte, dopo quello che ha visto, dopo aver assaporato i frutti di questo delirante abbandono al di là delle sue normali rotte, questo Battello, la cui vicenda ha un significato recondito simbolico ed autobiografico, può ritornare entro i mediocri confini di una vita usuale.
La spossatezza finisce col coincidere con un senso di sconfitta: conclusasi l’anarchica esperienza di rifiuto delle rotte usuali, semidistrutto, al battello non resta alcun’altra possibilità che quella di rimpiangere la pozzanghera della sua infanzia, in cui un bimbo malinconico abbandonava un battello leggero.
E’ un linguaggio da veggente, che travalica il limite dei sensi o, meglio, trascina i sensi al di là del loro limite, a esplorare l’ignoto, a scoprire cose inaudite e innominabili, esseri e forme di vita aberranti, di un fascino misterioso.
In questa celebre invenzione simbolica il poeta si identifica in un battello senza equipaggio, che si abbandona alla corrente di “Fiumi impassibili” e poi si lancia alla deriva negli oceani e, danzando sui flutti più lieve di un turacciolo, s’immerge nel Poema del Mare.
Così un battello da trasporto merci, rimasto senza marinai e svincolato dagli ormeggi, si abbandona liberamente alla navigazione, facendo esperienze meravigliose per mari senza confini, incontrando avventure indicibili e mostri di ogni genere.
Esso racconta le sue incredibili storie ebbro di gioia, ma anche deluso di non aver potuto toccare fino in fondo le tappe dell’inconoscibile.
Tuttavia, nella prospettiva di dover nuovamente tornare in acque sicure e chiuse a trasportare merci, si sente smarrito e preferisce che la sua “chiglia” scoppi!
E’ assai evidente l’analogia battello-poeta. Siamo alla fine del viaggio: il battello è mal ridotto e non può più sostenere la navigazione in mare aperto.
Sono rimasto colpito da questa composizione per le ripetute metafore e l’interpretazione attraverso la vista, l’immaginazione, il sogno ma soprattutto le sensazioni completamente soggettive che vanno al di là della fisica e che probabilmente non si possono descrivere né catalogare in quanto parte di un mondo intimo e personale.
Inoltre risalta in evidenza la facilità con cui il testo induce a riflessioni del tutto personali che creano la poesia non tramite chi la scrive ma tramite chi la legge.
Perciò chi legge e’ il vero scrittore, non chi scrive.
A differenza di quanto teorizzato dai romantici, Rimbaud ritiene che lo spazio soggettivo non sia chiaramente individuale ed immediatamente attingibile, né possa essere facilmente proiettato in un’esteriorità (come ad esempio la Natura) che lo rispecchi e lo dilati.
Tale spazio in Rimbaud resta una sorta di complessità sconosciuta, che si manifesta in modo imprevedibile e parziale e dalla quale emergono, di volta in volta, come magicamente, elementi che si presentano quasi dotati di una propria oggettività:
Il Poeta si fa “veggente” mediante una lunga, immensa e ragionata “sregolatezza” di “tutti i sensi”. Tutte le forme di amore, di sofferenza, di follia; egli cerca se stesso, esaurisce in sé tutti i veleni, per non serbarne che la quintessenza. Ineffabile tortura in cui ha bisogno di tutta la fede, di tutta la forza sovrumana, nella quale egli diventa in mezzo a tutti il grande malato, il grande criminale, il grande maledetto, e il Sommo Sapiente! Egli giunge infatti all”ignoto”! Poiché ha coltivato la sua anima, già ricca, più di chiunque altro! Egli giunge all”ignoto”, e se, smarrito, finisse col perdere l’intelligenza delle sue visioni, le ha pur vedute!>>
Risalta in questo brano la definizione del veggente come di colui che pratica una ragionata “sregolatezza” di “tutti i sensi”.
Il paradosso che si crea accostando il riferimento ad una presenza razionale e lucida del soggetto con il ricorso ad un’irrazionalità priva di regole, fino allo stravolgimento del significato stesso, esprime e descrive pienamente i caratteri essenziali della poesia di Rimbaud.
Significativa in questa poesia è l’esaltazione della gioventù, simbolo di speranza, che ancorché inserita in una vita e società raccapriccianti (specialmente quella capitalista ) e quindi ben conscia di quella orrenda realtà, riesce spesso a giocare in un fragile equilibrio, come una farfalla che nel pieno del suo splendore brilla inconsapevole della prossima morte, quasi convinta che il tempo non esista ma vi sia l’eterno, e ciò si ricollega a quanto prima citato.(“”).
Sempre Egli risulta attento a cogliere i caratteri trasfigurati di un’esperienza interiore che non crea né racchiude in una rappresentazione, ma dalla quale si lascia attraversare, ad un tempo attivo e passivo, trasformandosi quasi in un luogo in cui le differenze si annullano e la ricezione fa tutt’uno con la creazione poetica.
Rimbaud ambiva ricercare un linguaggio che si trasformasse in una specie di “comunicazione totale”, capace di includere anche gli elementi percettivi, estetici e materiali della realtà.
Individuò quindi la Poesia, duttile e trasgressiva, come lo strumento più idoneo per operare la “ragionata sregolatezza di tutti i sensi”.
Ma la soggettivazione estrema del linguaggio portò alla perdita del concetto di “universalità” della lingua, che non poteva non determinarne la crisi.
Poesia e linguaggio, quindi, certamente non tradizionali né a noi vicini e perciò più difficili da comprendere appieno, per cui spero di avervene fornito qualche spunto da approfondire.

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