Recensione del libro di Ilario Quirino Pasolini sulla strada di Tarso

Pasolini nacque a Bologna nel 1922, dove si laureò con una tesi su Pascoli nel 1945.
Tra queste due date si è svolto un periodo assolutamente determinante nella formazione di Pasolini: il carattere autoritario del padre, militare di carriera, provocò in lui un attaccamento intenso alla madre, fatalmente convertito in complesso edipico. Nel paese d’origine della madre, Casarsa del Friuli, trascorse la maggior parte di questo periodo; vi si rifugiò dopo ‘8 settembre del 1943, vi visse il periodo della Resistenza (cui egli non partecipò, ma il fratello mori nella lotta partigiana), per andarsene soltanto nel 1949, quando si trasferì a Roma. La metropoli significò la presa di contatto con la realtà umana degradata delle borgate, che Pasolini idealizzò e converti nel suo mito personale del popolo «selvaggio» non ancora plagiato dalla cultura borghese. Questa realtà regolata da istinti e bisogni primari è testimoniata nei romanzi Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1959), e nella raccolta poetica “Le ceneri di Gramsci” (1957).
Pasolini sente il fascino di quanto di natura e di sanguigna brama di vita e d’avventura c’è in questa formicolante umanità; e tale groviglio di vitalismo e natura popolare oppone al disfacimento del mondo borghese, in base ad atteggiamenti riportabili a tutto un retroterra letterario che va dal romanticismo al decadentismo (fascino estetizzante del primitivo, vagheggiamento della sana barbarie ecc.). Quanto si è detto finora autorizza a parlare di una dimensione populistico decadente di Pasolini, sia pure complicata e contraddittoria (in quanto l’adesione alla “sanità primitiva, non è totale e resta la consapevolezza della non eliminabilità del dolore e del male). Ma verso la fine degli anni Sessanta nell’opera di Pasolini intervengono svolte sostanziali. Man mano che la civiltà dei consumi omologa gusti e comportamenti, e il sottoproletario coinvolto in questo processo si integra e perde la sua fisionomia “naturale” e adotta modelli e valori piccolo-borghesi, per Pasolini crolla il punto di riferimento che fino ad allora – sia pure contraddittoriamente – lo aveva sostenuto.
La “natura” è sconfitta dalla “storia”, da questa storia, vale a dire da questa civiltà che massifica e spersonalizza e aliena. Pasolini aveva puntato sulla capacità di resistenza e di non integrabilità dei suoi “ragazzi di vita” e dei suoi” violenti”; ma alla luce di quanto è avvenuto negli anni Sessanta e Settanta, ed ancor più oggi, ha perso. Ecco allora “l’apocalittica” polemica contro questa civiltà (la scuola media unica, la televisione, la vittoria dei divorzisti) che ben presto trascolora in polemica contro la civiltà e inevitabilmente approda al discutibile vagheggiamento di un’incorrotta e autentica civiltà contadina non fatta come l’attuale («beni superflui che rendono superflua la vita»), ma fatta «di consumatori di beni estremamente necessari: ed era questo, forse, che rendeva estremamente necessaria la loro povera e precaria vita». Inoltratosi con sempre maggiore ostinazione (e con sempre maggiore sofferenza) su questa strada, Pasolini ha incontrato ora le polemiche e le guardinghe <distanze> dei compagni di strada “progressisti” non approdati (come lui) al rifiuto della civiltà tout court, ora le simpatie – abbastanza sospette -di quanti strumentalizzavano il suo discorso a fini “reazionari”.
Questa adesione passionale alla vita del «popolo» e consapevolezza ideologica, attrazione per la sua esistenza istintuale e coscienza che questa non era che il prodotto dell’emarginazione sociale, sono dunque i poli entro cui si è dibattuto lo scrittore : tale contraddizione ha fatto del suo marxismo una sorta di «generico umanesimo gramsciano» (R. l.uperini), ma gli ha permesso pure di sfuggire ai pericoli del dogmatismo scientista che in quegli anni egemonizzava il movimento marxista italiano. In questa fùtile anche se dolorosa indipendenza va inquadrata l’esperienza vissuta come redattore della rivista bolognese Officina, animata da un gruppo d’intellettuali impegnati a discutere il problema cruciale dei rapporti tra arte e politica, tra letteratura e società. Gli anni Sessanta hanno segnato l’attività di Pasolini come scrittore sceneggiatore, attore e soprattutto regista cinematografico. La letteratura gli appariva sempre meno il mezzo più efficace per comunicare il proprio messaggio a vaste fasce di fruitori, che era la condizione primaria della sua poetica civile e pedagogica .Inoltre l’immagine cinematografica gli appariva più arcaica e irrazionale e preistorica della parola, quindi più vicina della pagina scritta a quel mondo primordiale degli istinti che, per lui, restava l’unica isola felice di un mondo snaturato dall’ideologia borghese e dalla Chiesa cattolica. Ora pero questo mondo non coincideva più con le borgate romane bensì col Terzo Mondo, con l’Africa in particolare dove il regista ha ambientato certi suoi film : questa fase è considerata l’ultima concretizzazione simbolica del mito vitalistico di Pasolini e ripropone per l’appunto i miti della corporalità, del popolo libero e selvaggio, della civiltà rurale arcaica, del Terzo Mondo edenico.
Pasolini è pervenuto, nel mezzo di contraddizioni, incomprensioni, ritardi e preveggenze, ad incarnare una nuova figura di intellettuale politicamente indipendente, socialmente sradicato; e pur fortemente critico verso il movimento del Sessantotto, è stato forse colui che più ne ha ereditato gli stimoli moralizzatori e contestatori. Pier Paolo Pasolini è stato assassinato presso Ostia la notte del 2-11-1975; tra speculazioni e silenzi, la sua morte ancora oggi costituisce un enigma per molti versi inspiegato. I motivi fondamentali della biografia di Pasolini sono riducibili all’affetto edipico per la madre e quindi all’omosessualità, entrambi fonti di sensi di colpa ai quali lo scrittore reagisce ora con coraggiosa ostentazione, ora con vittimismo masochistico. Tutta la sua vita è trascorsa sui binari tutt’altro che tranquilli dell’esibizione e dell’autocensura, dello scandalo e dell’autopunizione, tra la coscienza della propria esclusione e la tensione alla partecipazione; e tutto il suo sforzo costante è cosistito nel tentativo di vivere quotidianamente la contraddittoria coesistenza di razionalità e “visceralità”, «ideologia» e «passione», pubblico e privato. Il sistema tematico dell’opera pasoliniana rivela una strutturazione bipolare: l’antitesi ideologica «natura vs storia» si tramuta in opposizioni tematiche ai vari livelli, quali vita vs organizzazione, emarginati vs integrati, «popolo» vs borghesi, fanciullo vs adulto, istinto vs logica, innocenza vs peccato, corpo vs divieto morale, mondo contadino vs mondo industriale, passato vs presente.
Tutto ciò testimonia come nell’autore coesistessero una tendenza all’analisi lucida delle cose ed un attaccamento nostalgico a un mondo di ruoli e valori stabiliti come per natura (per cui i giovani devono occuparsi di cose «da giovani» senza impicciarsi di problemi sociali, gli intellettuali devono essere intellettuali e basta, gli operai devono essere operai fino in fondo, gli studenti borghesi non hanno il diritto di lasciarsi sedurre dall’operaismo). Queste posizioni, peraltro fonte di numerose polemiche, sono le stesse ribadite in altre opere, come la poesia “il PCI ai giovani” o il dramma”Calderòn”, nel quale le intuizioni diventano profezia amara degli anni del terrorismo seguiti alla caduta dei miti sessantotteschi: «Dunque /la Borghesia, per liberarsi I del suo recente passato… ha bisogno contro se stessa -di figli rivoluzionari… Quando tutto / ciò che il potere vorrà distruggere sarà distrutto, / i giovani figli avranno esaurito il loro compito». Perciò egli era allo stesso tempo in ritardo ed in anticipo sul proprio tempo, e significativo al riguardo fu il suo atteggiamento nei confronti del 68, duramente criticato prima e poi recuperato quando ormai si era spento anche nei protagonisti.
Che poi alcune sue posizioni siano state riprese nel movimento del 77, dell’Italia ormai post-industriale, può apparire come un’ulteriore conferma delle contraddizioni di questo autore, che ha sempre vagheggiato il mondo pre industriale. Questa scarna ed essenziale analisi da me compiuta, che sintetizza le più accreditate posizioni critiche su Pasolini, mi caratterizza, secondo quanto scritto nell’introduzione a questo libro, come uno spettatore di serie B. Leggendo il libro di Ilario Quirino mi sono sforzato di fare il salto di qualità, di diventare cioè uno spettatore di serie A, ma non vi sono riuscito se non in parte. Grazie all’Autore, sono penetrato più profondamente nelle tematiche sviluppate da Pasolini, ma non sono arrivato, se non in limitati momenti, a cogliere appieno questo rapporto simbiotico con San Paolo e quindi meno ancora con Cristo. Alcuni collegamenti si rivelano molto evidenti ed adeguati, altri francamente un po’ imposti, anche se, proprio perché “a posteriori”, intuitivamente ed a volte genialmente costruiti.
L’annuncio della propria morte fa parte del bagaglio letterario di molti autori, penso in primis a Foscolo e Leopardi, senza che ciò possa autorizzarci a paragoni con questi autori di tempi, estrazione e formazione diversi, e quindi, a mio avviso, un po’ forzati. Ma il mio, come quello del dottor Quirino, è un giudizio personale, e quindi ha un valore in un certo senso limitato e quindi non valido erga omnes. Del resto dopo il Decadentismo, si è frantumata l’univocità del giudizio estetico, soprattutto dopo la nascita della Psicanalisi, per cui ogni opera d’arte ha valore in primis per l’autore e poi, se possibile anche per gli altri. E da quest’opera non convenzionale traspare indubbiamente l’ ammirazione viscerale dell’ autore per Pasolini, che si concretizza attraverso un’approfondita ricerca ed analisi introspettiva sincera, valida ed a tratti avvincente e per lo più convincente.
L’espressione linguistica, fluida, stringata, adeguata all’intento analitico, rende il saggio davvero interessante e di godibile lettura.

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