Vorrei iniziare il mio intervento tratteggiando sommariamente la figura di Omero.
I Greci lo considerarono quasi un dio e sacri considerarono i suoi libri.
Dante nel suo divino poema lo chiama “poeta sovrano” e lo pone a capo della eletta famiglia dei grandi poeti, “signor dell’altissimo canto che sovra gli altri com’aquila vola”.
Alcuni lo credevano contemporaneo alla guerra di Troia (1200 a. C.), o di poco posteriore ad essa (Plutarco). Altri lo ponevano contemporaneo alla migrazione ionica (Filostrato); altri ancora (Erodoto) pensavano che fosse vissuto nella metà del IX sec. a.C; altri lo ponevano 500 anni più tardi della guerra di Troia , cioè nell’ VIII sec. a.C.(Teopompo). Anche il luogo della sua nascita era già controverso nell’antichità.
Chio era considerata la sua patria da Semonide di Amorgo, ma Smirne era indicata da Pindaro.
Per quanto riguarda la sua morte, invece, sembra che Omero sia morto nella piccolissima isola di Io, nelle Cicladi, dove esisteva proprio una sua tomba.
Il nome “òmeros” significa “ostaggio”, ma anche “cieco”.
Molto probabile è che Omero fosse di Chio, e ciò sì può mettere in rapporto con l’esistenza a Chio degli Omeridi, che formavano una corporazione di Aedi professionisti, i quali asserivano oltretutto di discendere dal poeta stesso.
Si può, a buon diritto, pensare che il nome “Omero” significhi proprio “cieco”, giacché, di solito, gli Aedi erano ciechi.
Furono i filologi alessandrini, a partire dal III sec a.C. che divisero Iliade e Odissea, ciascuna in 24 libri, e dettero inizio a quella che prenderà il nome di “questione omerica”.
Essi iniziarono a porsi domande riguardo la datazione delle opere e riguardo a problemi di lingua ad esse inerenti. Costoro avevano il nome di “Chorizontes” (separatori ) L’attribuzione ad Omero è ormai vecchia di quasi tremila anni, fin dal VII secolo a.C.. Il grande Aristotele nella Poetica lodò Omero, per aver saputo scegliere, tra il numeroso materiale mìtico-storico della guerra di Troia, un episodio particolare, rendendolo centro vitale del poema.
Sui due poemi Iliade e Odissea, la critica più recente è ormai orientata verso un’ univoca interpretazione. I due poemi sono stati scritti da poeti diversi, anche se si riconosce, per ciascuna delle due opere, la unitarietà; scritte ognuna da un’unica mano, sì, ma non dello stesso autore.
Dopo gli importanti studi di W. Schadewaldt (1938) si è giunti alla conclusione che i due poemi sono stati scritti da due autori che hanno imposto unità di struttura poetica e scrittoria al materiale che trovavano nelle fonti dell’epica popolare cantata (e non scritta), tramandata secondo i metodi tradizionali dei cantori ( o aedi).
È ormai concordemente accreditato anche il fatto che fra Iliade e Odissea ci siano 4 secoli dì mezzo (cioè, che l’Odissea sia più giovane di 4 secoli, rispetto all’Iliade).
Ciò è stato possibile costatarlo grazie alle nuove metodologie di indagine, che si avvalgono di sistemi comparati e di simulazioni fatte al computer.
Si è potuto dunque mettere a confronto in maniera sistematica le due opere, per quanto riguarda lo stile, l’uso della metrica e delle formule fisse, il tipo di lingua e l’uso del “modulo”.
In questo modo si è giunti ad asserire che fra le due opere ci sono ben 4 secoli di differenza. ! Fermo restando, che entrambe rimangono pur sempre due opere unitarie, scritte ognuna da una sola mano.
Non vi sono dubbi sull’unità di questo grande blocco di poesia.
Dì qui innanzi, però, secondo molti critici, quando parleremo di Omero, gli affideremo la paternità solo di un’opera: l’Iliade.
Dell’esistenza di Troia si è ormai certi, dopo gli scavi archeologici compiuti dallo Schliemann sulla collina di Hissarlik presso l’Ellesponto e l’Egèo : ben nove città si erano costruite in quel luogo, una sulle rovine dell’altra.
Nei resti di una di esse, la città del secondo strato a partire dal basso, l’archeologo tedesco riconobbe la Troia di Omero, ma alcuni anni più tardi Guglielmo Dorpfeld sostenne invece che non la seconda, ma la sesta era la città di Priamo, appartenendo l’altra ad un’età ancor più remota.
Infatti la sesta delle città sovrappostesi sul luogo reca, nelle sue mura, imponenti ed evidenti tracce di un incendio colossale e di una violenta distruzione.
L’opera di Omero non tratta, come parrebbe dal titolo, la guerra di Ilio (Troia), ma un episodio di questa guerra, l’ira di Achille, con un’azione che si svolge in un periodo brevissimo, se paragonato alla durata della guerra: soltanto 51 giorni di una guerra durata 10 anni.
Alcune curiosità : Il tempo narrato in Iliade ha ritmi diversi, a seconda delle diverse parti del Poema. Ci sono più giorni narrati nel libro I° e nel XXIV, che non nei libri centrali,
Nel I° troviamo narrate le vicende di 22 giorni.
Nel XXIV, ci sono narrate le vicende di 21 giorni.
Ma il 27° giorno (morte di PATROCLO) occupa circa 4 libri.
Questo è il giorno più lungo del poema !
Cantami, o Diva….. In vero, le ire sono due, e non una, e il passaggio dall’una all’altra, divide il poema in due parti: Nel primo libro, troviamo il dispetto (o il capriccio?) di Achille che non vuole più combàttere perché gli hanno tolto Briseide : è la grande ménis, la collera tremenda generata dall’orgoglio.
Nel XVII e XXIII libro, la collera vendicatrice di Achille per la morte dell’amico, ha impeti ferini: strage di nemici, fiumi di sangue, strazio e scempio anche dei cadaveri, Ettore ormai morto, legato per i piedi e trascinato dalla biga dell’uccisore, con la testa nella polvere, attorno alla tomba di Patroclo.
In mezzo, altri atti di ordinario eroismo guerresco, simbolo di una vita eroica, giovenilmente vissuta tra scene di ordinaria violenza. Quanta distanza di motivazioni dall’Odissea ! Qui l’epopea del viaggio e della nostalgia della casa lontana ci trasporta in una dimensione affatto nuova, più riflessiva ed intima, oserei dire più psicoanalitica. Penso al Foscolo di A Zacinto (Regressione all’infanzia ed al grembo materno). Anche se nell’Odissea lo spirito di avventura è presente e spinge talvolta anche alla violenza (Polifemo), tuttavia personalmente lo preferisco finalizzato alla sete di conoscenza, accettando la lezione dantesca e poi foscoliana del “folle volo”………….
Ma mi sto perdendo…..
Ritornando all’Ilìade, a chiunque viene immediatamente il ricordo di fatti straordinari, “eroici”, e tutti sanno che l’“eroico” è l’accento fondamentale di questo poema.
Nell’Iliade è eroico ciò che è al di sopra della norma, in qualunque modo, sia nel bene che nel male, nonché tutte le forze che si eroicizzano esse stesse, uscendo dalla norma, per eroicizzare l’eroe.
Queste grandezze e questa eroicità non sono descritte con occhio stupito o sorriso di meraviglia, che sono tipici della poesìa cavalleresca; il poeta stesso è all’interno di questo meraviglioso, in quanto il suo mondo naturale, quello che vede e che descrive e narra, è la sua normale realtà.
Non racconta dal basso, non guarda in su, misurando la distanza. Anche chi legge non guarda in su, ma è dentro alla scena eroica, in questo mondo, straordinario, smisurato, meraviglioso.
Anche Ballarati, in questo volume, ha colto appieno lo spirito di Omero in quanto si cala nei personaggi con disinvoltura, oserei dire senza timore reverenziale, e riesce con grande sicurezza a tenere le fila di quel vasto mondo eroico. Ettore, Achille, Aiace, Diomede, Enea ed altri ancora sono gli eroi che popolano il mondo del’Iliade: dire a quale di essi vada la simpatia del poeta è cosa difficile.
Ma Omero, poeta di raro equilibrio, di rara armonia, ama e canta nella stessa misura i suoi eroi, nati tutti dalla sua prodigiosa fantasia creatrice, e riconosce ed esalta il valore guerriero, la nobiltà dell’animo, l’eloquenza sottile ed abile non solo negli eroi greci, ma anche in quelli troiani.
Cade Patroclo nel fiore degli anni, cade dall’altra Ettore, rapito dalla stessa forza oscura che tutti uguaglia gli uomini nell’estremo momento di abbandonare la vita; e gli dèi assistono, lontani, indifferenti, incapaci essi pure di opporsi alla forza cieca del Fato. La simpatia di Omero, ed è una simpatia che noi tutti condividiamo, va soprattutto a coloro che, come Achille, come Patroclo, come Ettore, sanno accettare il proprio destino, qualunque esso sia; non si ribellano, non imprecano, ma accettano con serenità, con dignità i decreti del Fato, a cui del resto nessuno può sottrarsi. Giove…. Ovidio…
Ogni malinconia per la brevità della vita, per la caducità delle umane cose è superata da questa più virile concezione, e agli eroi che più sentono questa forza morale va la simpatia del poeta, che è pure la nostra.
Il Foscolo chiude i Sepolcri ricordando uno di essi : e tu onore di pianti Ettore avrai ove fia santo e lacrimato il sangue per la patria versato e finchè il sole risplenderà sulle sciagure umane.
Buon profeta, il Foscolo; infatti ancor oggi ne parliamo !
Questo volume di Ballarati nasce da un progetto di rilettura sicuramente non convenzionale del poema omerico e sembra organizzato e destinato più alla scena teatrale che alla lettura.
Egli, infatti, in 72 monologhi, corrispondenti a 22 personaggi del poema, racconta la causa scatenante della guerra, poi l’assedio e la caduta di Troia.
L’autore “rinuncia” quasi totalmente agli dei e punta sulle figure che si muovono sulla terra, sui campi di battaglia, nei palazzi achei, dietro le mura della città assediata.
Tema nodale di questa sequenza di monologhi è soprattutto la guerra, la guerra come desiderio, destino, fascinazione, condanna.
Elena, Enea, Achille, Priamo, Diomede, Agamennone, Ulisse, Menelao, Ettore, Aiace, Paride e gli altri famosi personaggi creati dalla tradizione poetica di un lontano passato tornano a raccontare la loro storia, rivolgendosi direttamente ai lettori in un libro che fa rivivere al lettore passioni, odi, amori, inganni e battaglie senza tempo.
Riallacciandosi alla dimensione dell’oralità su cui si basava la poetica antica, l’opera si caratterizza per una sequenza di narrazioni in soggettiva: nei monologhi ogni personaggio fa rivivere fatti, impressioni, sentimenti dal proprio punto dì vista e con le proprie parole.
Seppur fedele al capolavoro omerico, l’opera presenta un’importante differenza rispetto all’originale: l’eliminazione o meglio la forte attenuazione della presenza delle divinità dalla trama.
Nel mondo classico Greco e Latino gli autori e quindi i loro eroi hanno sempre fatto riferimento ad un Deus ex machina, come a quel potere superiore capace di districare alcuni aspetti della vicenda esistenziale, spesso attraversata e bloccata dall’insorgenza improvvisa dell’imprevedibile.
Per chi come me in altri tempi ha avuto la possibilità di studiare l’opera con vivo interesse, la presenza del divino, o meglio il continuo passaggio dal divino all’umano, attribuivano ad essa quel fascino che solo possiedono i grandi capolavori.
Il nostro moderno autore Ballarati , con una scelta coraggiosa, non mostra gli dei, seppure talvolta presenti sullo sfondo, mentre il cantore antico li riconosceva grandi protagonisti degli eventi.
I veri attori dell’Iliade raccontata da Ballarati, sono gli uomini e le donne che con le loro azioni e le loro passioni muovono un mondo complesso, solo apparentemente lontano, ma in realtà ancora vicino a quello di oggi, in quanto in ogni personaggio si riscontrano valori e sentimenti universali, che da sempre fanno parte della natura umana.
Pregevole appare spesso l’analisi psicologica dei protagonisti, che riesce a penetrare nelle pieghe più nascoste dell’animo, soprattutto nei momenti di più intensa drammaticità, liberandoli quindi da quella patina di “eroicità” assegnata loro da Omero, per offrirci uno spettacolo nuovo, popolato di creature fragili e che spesso più che agli interessi generali sembrano attaccati al proprio “particolare” momentaneo.
A mio avviso, l’Autore si avvicina all’universo omerico con un particolare approccio metodologico di montaggio e smontaggio e con l’enucleazione di alcuni percorsi privilegiati : la guerra, dettata dalle ragioni dell’economia, ma soprattutto l’Amore.
Anzi, l’Amore-Passione, che Elena suscita immediatamente in chi le sta vicino. Ella infatti, attraverso i suoi monologhi, trova adeguato e nuovo spazio, anche psicologico, nell’opera di Ballarati. E non a caso,forse, chiude il monologo finale del libro. (Lettura )
L’Amore, quindi, soprattutto sensuale, che rappresenta la causa scatenante del conflitto, è anche il sentimento con il quale l’Autore, a mio avviso intenzionalmente, ed io penso di poter condividere questa scelta, chiude l’ultimo racconto, lasciando nel nostro cuore non il fragorìo delle armi, ma la dolcezza e la forza travolgente di quell’emozione.
L’opera è scritta in un italiano corrente, semplice e godibile da tutti e perciò adatto ad una non superficiale conoscenza, da parte soprattutto dei giovani, del capolavoro omerico, che ormai non è quasi più studiato nella scuola.
Ma questo volume del Ballarati rappresenterà, comunque, anche una piacevole rivisitazione per quanti hanno avuto la fortuna di studiare l’Iliade più a fondo, offrendo della nota vicenda spesso nuovi angoli di visuale, a mio avviso talvolta assai interessanti.
Complimenti.