Curiosità:Come si mangiava...

Come si mangiava…1
Un milione di anni fa
Una moda, molto discussa, afferma che se mangiassimo come i nostri antenati la nostra salute ne gioverebbe. Ma di cosa si nutrivano veramente un milione di anni fa? Poiché l’agricoltura non era ancora stata inventata e si viveva di caccia e raccolta, ogni popolazione aveva una dieta diversa, che dipendeva dalle risorse locali. Così, in Africa è probabile che ci si nutrisse di antilopi, tuberi e (dove disponibili) frutti. In Australia ci si rivolgeva ai rettili, a qualche marsupiale e ancora a tuberi sotterranei. Le popolazioni delle coste si affidavano in gran parte ai crostacei, ai molluschi e ai pesci che arrivavano a riva; solo dopo l’invenzione della rete da pesca è stato possibile catturare pesci d’altre specie e in gran quantità. Non mancavano poi cibi occasionali, come uova di uccello o di rettile, insetti e semi di cereali. Gli stessi che hanno costituito la base per la evoluzione dell’agricoltura e dell’alimentazione.
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A causa del clima e della scarsa fertilità del suolo, ai tempi di Pericle, V sec. a.c., gli antichi Greci erano piuttosto morigerati. La base dell’alimentazione era costituita da orzo e grano. Le maza, ossia gallette di farina d’orzo, era il cibo quotidiano. ll pane di frumento invece si mangiava solo nei giorni di festa. Come companatico, un alimento solido, chiamato opson, e cioè verdura, cipolle, olive, carne, pesce, frutta.
Alto era il consumo di formaggio e aglio. ll pesce era il piatto forte: soprattutto sardine e acciughe, ma anche frutti di mare, conchiglie e molluschi, seppie e calamari. In città le verdure erano rare, molti i legumi (soprattutto fave e lenticchie) che si consumavano in purè.
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I Romani, popolo sviluppatosi da un piccolo villaggio di agricoltori, mantennero da principio a tavola abitudini frugali.
Delle uova preferivano la chiara al tuorlo e le cucinavano come facciamo noi oggi alla coque, sode, al tegamino o strapazzate. L’uovo, simbolo della rinascita e della fecondità, era mangiato sempre all’inizio dei pasti.
Il latte (di capra, vacca, asina o cavalla) considerato un alimento indispensabile era bevuto sia fresco che aromatizzato. Da esso si ricavava il formaggio, che gli antichi romani consideravano un piatto completo, usato in aggiunta alla polenta o come condimento. Il latte con aggiunta di farina, miele e frutta serviva per preparare dolci.
La carne venne introdotta con l’urbanizzazione e la più utilizzata era quella di suino mentre la migliore era considerata quella d’agnello o di capretto. La carne meno pregiata era quella di montoni e capre mentre i più ricchi preferivano il pavone e il ghiro. Si consumavano anche la carne d’asino selvatico e la selvaggina di grande e piccola taglia (cinghiale, lepre, oca e anatra).
Per quanto riguarda gli uccelli, oltre a tordi e piccioni, i romani cucinavano specie importate dalle varie regioni dell’impero, come fenicotteri, cicogne e grù e molto ricercati erano i piatti a base di pavone e di fagiano. Quanto al pollo, lo mangiavano soprattutto i poveri.
Il pesce era di solito accompagnato da verdure bollite, carni o fegati. Tra le varietà più diffuse c’erano l’orata, la triglia, la sogliola e il luccio.
Sulla tavola dei Romani il pane non mancava quasi mai. Il primo frumento usato per prepararlo fu il farro, che era ai tempi il cereale più coltivato mentre dal grano si ricavava una specie di pappa di frumento. All’inizio il pane veniva sfornato in casa, poi cuochi e artigiani specializzati aprirono vere e proprie panetterie con tanto di forni e mulini. La prima focaccia romana era guarnita con formaggio, olive, uova e funghi. Vi erano solo tre tipi di pane: quello nero o dei poveri, il pane bianco (poco migliore del primo) e il pane bianco di farina finissima o pane dei ricchi.
Poiché era molto duro, veniva di solito intinto nel vino, nell’olio, nelle minestre o accompagnato dalle salse. Da principio al posto del pane veniva usata la polenta, che era preparata in un contenitore di terracotta dove al farro si aggiungevano acqua, sale e un po’ di latte e, a seconda dei gusti, fave, cavoli, cipolle, formaggio ed anche alcuni pezzi di carne o di pesce. Questo miscuglio conteneva un’infinità di ingredienti era chiamato satura o satira proprio perché saziava (da cui derivano i termini saturazione e satira, nel senso di battute o scherzi pesanti).
Il vino era la bevanda più amata dei romani:gli uomini non potevano berlo prima di aver compiuto trent’anni, ovvero la maggiore età, ed era proibito alle donne. Esisteva una prova, chiamata ius osculi (diritto del bacio), che permetteva al marito di baciare la moglie sulla bocca proprio per capire se avesse o meno bevuto. I Romani conoscevano il vino rosso (chiamato nero) e il vino bianco.
Il vino più famoso? Il vinum mulsum, miscelato con il miele, molto popolare perché permetteva a donne e uomini sotto i trent’anni di aggirare il divieto di bere vino puro. Il consumo medio in un anno era di 140 – 180 litri a persona e la ragione era forse anche nel grande apporto calorifero che dava alla dieta dei romani costituita in gran parte da cereali e vegetali. Tra i poveri e i barbari era invece diffusa la birra.
Nell’età che seguì alla morigeratezza augustea, quando i romani vollero gustare i piaceri della vita che offrivano loro le grandi risorse dell’Impero, divenne noto un eccezionale buongustaio, Marco Gavio Apicio, citato sia da Seneca che da Plinio. Su questo personaggio si andò accumulando un’esuberante aneddotica. Si vuole, ad esempio, che nutrisse le murene con la carne degli schiavi, e che si sia suicidato dopo aver dilapidato in banchetti un immenso patrimonio. Apicio nelle sue fastose cene offriva ai suoi ospiti cibi elaborati, come pappagallo arrosto, utero di scrofa ripieno o ghiri farciti, di cui egli stesso indicava le ricette che intorno al 230 d.C. un cuoco di nome Celio compilò in una raccolta in dieci libri, il De re coquinaria (L’arte culinaria), attribuendola ad Apicio. Si tratta di appunti frettolosi e disordinati che costituiscono, tuttavia, la principale fonte superstite sulla cucina nell’antica Roma.
A questo stravagante personaggio che Plinio il Vecchio definisce «il più grande tra tutti gli scialacquatori»[2 ] si dovrebbe l’invenzione di qualcosa di simile al foie gras che egli otteneva ingozzando le oche di fichi in modo da far loro ingrossare il fegato da cui il termine ficatum che passò poi a designare il fegato.
Apicio venne aspramente criticato da Seneca che lo addita come «un cattivo esempio» per la gioventù[3 ] e da Marziale che ne parla dicendo : «avevi profuso, Apicio, per la tua golosità sessanta milioni di sesterzi e ti rimaneva ancora un bel margine di dieci milioni. Ma tu hai rifiutato di sopportare quella che per te era fame e sete e hai bevuto, come ultima bevanda, il veleno: non avevi mai agito, Apicio, più golosamente.»[4 ]
La presenza di tanti cibi che esaltavano i piaceri della vita, ma anche del vino dai cui eccessi spesso deriva una tristezza etilica, portava con sé anche una riflessione sulla fine della vita e della morte incombente che costituiva spesso un tema rappresentato nei mosaici dei triclini nella forma di scheletri che portano anfore come quelli effigiati nel vasellame d’argento ritrovato a Boscoreale, in particolare su due coppe dove sono raffigurati scheletri di scrittori e filosofi greci contornate da scritte che proclamano sentenze come «Godi, finché sei in vita, il domani è incerto», «La vita è un teatro», «Il piacere è il bene supremo».[5 ]
Si spiega così come anche Trimalcione, al termine della sua memorabile cena si presenti ai suoi invitati con uno scheletro d’argento[6 ], mentre legge agli ospiti stralunati, in una sorta di cerimonia funebre, tra i pianti dei servi, il suo testamento.[7 ]
Si sbaglierebbe a pensare che gli eccessi descritti a proposito dei banchetti imbanditi dai crapuloni come Trimalcione dove
« Vomunt ut edant, edunt ut vomant[8] »   « Vomitano per poter mangiare e mangiano per poter vomitare »
caratterizzassero le cene di tutti i romani di elevata condizione. Non era così per gli intellettuali come Marziale, Giovenale lo stesso Plinio il Giovane che prepara per la cena dei suoi ospiti una lattuga, tre lumache, due uova per ciascun invitato, olive, cipolle, zucche, un pasticcio di farro e vino miscelato con miele raffreddato nella neve[9 ]. La stessa sobrietà caratterizza i conviti dei plebei che ad esempio nello statuto del collegio funerario, istituito a Lanuvio nel 133 d.C. per sopperire in comune alle spese dei funerali dei loro membri, stabiliscono che nelle previste sei cene sociali annuali si imbandirà un pane di due assi, quattro sardine e un’anfora di vino caldo e prevedono multe per chi non sarà educato a tavola ingiuriando un collega o facendo chiasso.[10 ]
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Fin dal primo secolo i cristiani di Roma avevano trasformato le cenae in agape dove assumevano «lodando Dio, il loro cibo con gioia e semplicità di cuore».[11 ] Scriveva Tertulliano nel II secolo: «non ci si sdraia per mangiare che dopo una preghiera a Dio. Si mangia secondo la propria fame, si beve come conviene a gente pudica, ci si sazia come gente che non dimentica che anche la notte bisogna adorare Dio. Si discorre come chi sa che Dio ascolta».[12 ]
Con il riconoscimento del Cristianesimo nel 313 come religione tollerata si diffonde l’uso di onorare con banchetti funebri (refrigeria) il genetliaco dei martiri: si imbandisce quindi un frugale pasto in comune o si fanno libagioni che durano tutto il giorno in un clima festoso che venne comunque condannato per l’«abundantia epularum et ebrietate».[13 ]
L’ammonimento di Sant’Ambrogio: «chi indulge in cibi e bevande non crede nell’aldilà»[14 ] è ormai il segno di una politica moralizzatrice delle autorità religiose tendenti a eliminare ogni eccesso della carnalità anche per quanto riguarda l’alimentazione.

Per i nobili durante il Medioevo la vita era certo migliore. Cinghiali, cervi e cacciagione in genere erano a loro disposizione in abbondanza tanto che spesso l’eccesso di carne li ripagava con la gotta. Per ricchi e poveri il pane restava comunque I’alimento principe. A base di farine di ogni tipo, nei momenti di miseria nera si arrivava a farlo con paglia, cortecce macinate o ghiande.
Le differenze sociali pesavano anche sulla tavola dell’uomo del Rinascimento, ma la scoperta dell’America per lo meno arricchì il ventaglio di possibilità’
Nei porti europei giunsero patate, mais, pomodori, peperoni, peperoncini, fagioli, tacchini e cacao.
Per combattere fame e denutrizione causate dalle continue guerre, le autorità promossero l’utilizzo del mais, che a partire dal 1700 riempì la pancia della popolazione europea. Purtroppo portò anche alla diffusione della pellagra, una malattia che insorge a causa della carenza di vitamina PP e porta alla morte. Il mais ne contiene pochissima e se bollito per farne polenta come veniva consumato allora, perde anche quel poco che ha.
Anche la patata che si diffuse come alimento agli inizi del ‘600 in Irlanda, diventò il sostentamento principale per alcune popolazioni (in Irlanda portò tra l’altro a un forte sviluppo demografico). Prese poi piede in Inghilterra, Olanda, Germania e Francia, via via che ci si accorgeva che un campo di patate sfamava molte più persone che un campo di segale.
Il massimo consumo di questo tubero, che contiene importanti amminoacidi, vitamina C e potassio, si ebbe però nel XIX secolo: in Francia, ai primi dell’800 se ne consumavano 20 kg a testa all’anno, un secolo dopo , si era arrivati a 159. E in Germania a 300.
Ma la patata non perse mai la sua immagine di “cibo dei Poveri” e dopo la Seconda guerra mondiale il suo consumo cominciò a diminuire.
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Lo scrittore Audiger dice che alla corte del Re Sole Luigi XlV, 1638-1715, perché nessuno si lagnasse, ci volevano 750 grammi di carne al giorno, inclusi brodi, sughi e concentrati.
Poi descriveva un menu tipico di corte. Il primo è un piatto di carne bollita, seguono salsicce, torte di piccione e pernice, pollo in gelatina o quaglie. Il secondo: arrosto, uccelli, orecchie di porco, testicoli di vari animali, uova, cardi, carciofi, gelatine e carni bianche. Dolci: frutta e composte.

Alla Corte della Regina Vittoria, 1819-1901, i pasti erano motto consistenti: si parla di 12/15 portate alla volta. Un primo di costolette di agnello fritte, filetti di pollo al tartufo, animelle di vitello e cicoria, filetti di anatroccolo e piselli. Come piatti intermedi: insalata di astici, uova di piviere. Per secondo, pollo al crescione con piselli. Dolci: gelatina di frutta, meringhe.

Negli anni ’50 a Milano la dieta variava secondo le classi sociali. Fra la tavola della borghesia e quella del proletariato urbano c’era un abisso, soprattutto per quanto riguarda la carne. Piatti comuni, nel menu invernale, erano: riso in brodo o al burro, risotto con fagioli, minestrone, pasta e fagioli, maccheroni al pomodoro, pollo, cotoletta di maiale, polenta con carne di maiale, verze e salsicce, cotoletta di vitello, cotechino, formaggi molli, patate lessate o fritte. La verdura fresca era scarsa e così il pesce (tranne aringhe e merluzzo, per il venerdì di magro).

A Mormanno, agli inizi degli anni 50, l’alimentazione era ancora molto semplice:Polenta, patate cotte e fritte, ogni tipo di verdura, grano, fagioli, ceci, lenticchie, pomodori per la “cunsèriva”, polli e galline per le uova spesso sotto il letto, a volte anche il maiale, conigli in gabbie improvvisate, rara la carne di pecore e capre, rarissima quella di vacca (solo se aveva avuto qualche incidente!), l’uva ed altra frutta.
La novità alimentare di quegli anni fu la pasta già pronta, prodotta dal Pastificio D’Alessandro, ed a poco a poco a portata di tutti, ed i primi prodotti in scatola, provenienti per lo più dall’”America”.
Fu anche il tempo dei primi “gianduiotti” triangolari con la scritta:” E’ felice e contento ogni bambino se gianduiotto Ferrero ha nel cestino”, e fu l’inizio del consumismo!!!
[1] Notizie tratte da FOCUS e da Internet
[2] PLINIO IL VECCHIO. , VIII, 209
[3]SENECA, Cons. ad Helviam , X ,8
[4] MARZIALE, III,22
[5] Articolo di G.Cetorelli Schivo Soprintendenza per i beni archeologici del Lazio
[6 PETRONIO, VI
[7]Idem, , XIV-XV
[8] SENECA, Consolatio ad Helv. , X, 3
[9] Questa la lista di cibi preparata da Plinio per il suo ospite Septicio Claro in I, 15
[10] , XIV, 2 112
[11] Atti degli Apostoli , II, 46
[12] TERTULLIANO, , 39
[13] S. Agostino, , XXIX, 2

[14] S.Ambrogio, Hel. 3,4; 4,7; Ep . 63,19

• Nico Valerio, La tavola degli Antichi, Mondadori, Milano 1989.
• Antonella Dosi, François Schnell, A tavola con i Romani antichi, Quasar, Roma, 1984.
• La vita quotidiana a Roma, Universale Laterza, Bari 1971

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