Biografia di GALEAZZO di TARSIA, un "Poeta (un pò) maledetto"

Biografia di un “Poeta (un po’) maledetto” di nostra Calabria Citra -Galeazzo di Tarsia (1)

Leggendo la biografia di questo personaggio del XVI secolo, l’accostamento ai “poeti maledetti” viene spontaneo, anche se totalmente non gli si addice.

Anche nella stampa quotidiana sono apparsi articoli di terza pagina su Galeazzo di Tarsia:Questo de Il Messaggero, 7 aprile 1953:recita “Genio, amore e dissolutezza d’un poeta maledetto del ‘500”.

Con questo appellativo, dovuto a Paul Verlaine, si designava. nel periodo romantico, in generale un poeta di talento che, incompreso, rigetta i valori prevalenti in quella società, e conduce uno stile di vita provocatorio, pericoloso, asociale.

Questo appellativo di maledetto lo attribuì Paul Verlaine a sé stesso, ma esso avvolge in un alone indefinibile autori di epoche diverse come : Cecco Angiolieri, François Villon, Charles Baudelaire, Guy de Maupassant, John Keats, Edgar Allan Poe ed altri.

Galeazzo di Tarsia apparteneva ad una antica famiglia patrizia di Cosenza, quella dei Tarsia, che primeggiava, con quella dei Telesio, tra il patriziato cosentino, per cultura e studi umanistici.

I Tarsia possedevano in signoria la baronia di Belmonte con i feudi di Tinge e S. Barbara sin dal 1443, da quando, con l’avvento degli Aragonesi nel Regno di Napoli, Galasso di Tarsia ottenne l’investitura di queste terre.

Il poeta Galeazzo di Tarsia nacque a Napoli, in una casa nella strada del sedile di Capuana, nel 1520 da Caterina del Persico dei conti di Sabbioneta e da Vincenzo, erudito e colto membro dell’Accademia Cosentina, al quale, appena decenne, successe come sesto barone nella signoria di Belmonte.

Ebbe come tutori il prozio materno Scipione di Somma, il prozio paterno Francesco e lo zio paterno Giovan Battista, ma sin dall’adolescenza dimostrò di possedere un carattere ribelle e violento.

Galeazzo dimorò nel suo castello feudale fino ai diciotto anni, poi, verso il 1538 partì per Napoli, ove conobbe la poetessa Vittoria Colonna, che primeggiava negli ambienti letterari di quegli anni; fatalmente agli occhi del nostro giovanissimo poeta ella dovette apparire una creatura eccezionale, che univa alla ancora fiorente bellezza fisica la delicata e rara sensibilità dell’artista.

Il ventenne Galeazzo amò, ma senza fortuna, la non più giovane Vittoria Colonna e non fu amore passeggero se più tardi, nella quiete del suo castello di Belmonte, egli comporrà per essa molte sue rime.

Galeazzo dimorò a Napoli circa quattro anni e fu molto probabilmente durante il suo soggiorno napoletano, verso il 1540, che avvenne il viaggio per la Francia.

Di questo suo viaggio egli stesso ce ne fa cenno in un suo famoso sonetto, che, per la struggente nostalgia che lo pervade, fa pensare essere stato composto molti anni dopo, a Lipari, durante il periodo della sua relegazione, come vedremo. Tornato da Napoli a Belmonte, quando stava per ritrovare quella serenità di animo che di solito subentra alle grandi passioni, s’innamorò di una «giovinetta schiva » belmontese, da identificarsi molto probabilmente con la Rosella de Ruggiero ricordata nel testamento ed alla quale lasciò «… per suo maritagio onze dudece de carlini » o con la madre della sua figliuola naturale Claudiella o con tale Mirabella de Nicastro, ricordate nel suo testamento.

Ma si trattò di innamoramenti effimeri poichè nel 1543 sposava Camilla Carafa, figlia di Giovanni Francesco Carafa e sorella del conte di Mondragone, che mori giovanissima sei anni più tardi nel 1549. Dalle nozze gli nacque una figlia, Iuliella.

È questo il breve periodo che egli potette godersi la famiglia nella quiete del suo castello, posto in luogo ameno sulla riviera di ponente. Come egli stesso canta nei suoi versi, il matrimonio gli fece ripudiare la sua disordinata e peccaminosa vita di scapolo.

Infatti prima del 1543, la sua natura violenta ebbe, nella società di quel tempo, opportunità e facilità di manifestarsi ai danni dei suoi vassalli, dei quali divenne il terrore.

Si rese responsabile di sevizie, soprusi, adulteri, violenze, stupri; sì parla infatti di «violenze a vergini et coniugate, di percosse, ferite et anche morti in persone di vaxalli». «Estorceva grosse somme di danaro, insultava con ingiurie atroci, aggrediva a mano armata chi non si piegava alle sue insane e pazze voglie, riempiva le carceri d’infelici, sottoponeva alla tortura chi recalcitrava e si ribellava».

Gli abitanti di Belmonte riuscirono segretamente a far pervenire ai magistrati del Regno una querela da loro sottoscritta, che denunziava le gravi colpe di cui si macchiava giorno per giorno il giovane Galeazzo. Ciò dovette avvenire prima del 1543. Le accuse furono provate e soltanto nel 1547, a distanza di cinque o sei anni dai reati commessi, la Gran Corte della Vicaria riconosceva Galeazzo di Tarsia colpevole dei delitti ascrittigli e lo condannava a vita alla relegazione nell’isola di Lipari, con la perdita della giurisdizione baronale.

Mentre Galeazzo scontava la sua pena a Lipari, governava in sua vece nella baronia di Belmonte il fratello Tiberio, che lo sostituiva anche nella carica di Capitano a guerra dei Casali di Cosenza, carica questa sempre appartenuta tradizionalmente alla famiglia di Tarsia.

Sotto la reggenza di Tiberio avvenne nei primi giorni di marzo del 1549 una vera scorreria organizzata da Tiberio e dal fratello Cola Francesco ai danni degli abitanti di Amantea, con l’aiuto di una banda di ribaldi e fuoriusciti, che avevano ottenuto rifugio ed asilo nel castello di Belmonte.

IL vicerè don Pietro di Toledo, avutane denunzia dall’Università di Amantea, che non tralasciava di sottolineare «la comodità del castello de Belmonte per organizzare queste spedizioni punitive sulla vicina città, incaricò il regio commissario Giovan Leonardo Pandone di effettuare un sopralluogo a Belmonte e condurre l’inchiesta col massimo rigore su «…li insulti, violentie ed homicidii commissi …contra la città della Mantea;.

Per tutta la primavera del 1549 il Pandone occupò il castello di Belmonte con una guarnigione di venticinque soldati spagnuoli. Ma, partendo il Pandone, i soldati spagnuoli, senza averne ricevuto ordine alcuno, lasciarono il castello ed in Belmonte entrarono, alla testa di molti fuoriusciti, un Marcello di Tarsia, congiunto del poeta, ed un Marco della Fontana.

Galeazzo, che trovavasi a Lipari, e Tiberio dovettero comparire dinanzi alla Corte a Napoli, per rispondere di aver dato asilo a banditi. In attesa del processo essi restarono a Napoli sotto sorveglianza, sotto pena del versamento di duemila ducati, in caso di fuga.

Ma, avendo avuto notizia che nel frattempo nel castello di Belmonte era deceduta la giovane moglie Camilla, Galeazzo di nascosto lasciò Napoli nell’estate del 1549 e per via mare raggiunse Belmonte, ove era rimasta sola la figliuola luliella, di circa sei anni. Dopo otto giorni fece ritorno a Napoli e, presentatosi spontaneamente alla Gran Corte, presentò una denunzia contro il commissario Pandone, incolpandolo d’essere stato indirettamente causa della morte della moglie ed ottenne che per il suo viaggio non autorizzato, non duemila, ma soltanto cinquecento ducati della cauzione egli pagasse come penalità.

Dal processo sia Galeazzo che Tiberio ne uscirono scagionatì; Cola Francesco, invece, diretto responsabile delle scorrerie contro Amantea, fu condannato in contumacia e messo al bando.

Dopo il processo il poeta fece ritorno a Lipari. Qui lo troviamo il 5 Novembre 1551 mentre fa testamento per mano del notaio della famiglia, Napoli della Macchia, venuto espressamente da Cosenza, e qui ancora sì trova nel gennaio 1552.

Nel febbraio-marzo 1552 il poeta, per l’autorevole influenza dei suoi prozii, Scipione di Somma e Francesco di Tarsia detto Capodiferro, vicerè di Abruzzo, i quali non avevano mai tralasciato d’intervenire in suo favore presso il Viceré, fu scarcerato e potette fare ritorno in Belmonte e riprendere possesso delle sue prerogative baronali,

Nel luglio del 1552 il poeta già libero, fervendo i preparativi per la spedizione contro Siena, venne chiamato, assieme agli altri feudatari del Regno, a Napoli dal viceré don Pietro di Toledo ed in data 30 luglio di quell’anno stese di proprio pugno una procura con la quale conferiva al vecchio prozio Francesco i pieni poteri e lo lasciava nel castello di Belmonte, reggente della baronia.

Il 24 Settembre 1552 il poeta lasciò al prozio Francesco un’altra procura e consegnò al notaio belmontese Jacopo Mannarino, davanti a sette testimoni ed al giudice a contratti, un altro testamento, con il quale annullava quello precedente di Lipari e lasciava la baronia di Belmonte alla figlia luliella ed in caso della di lei morte senza prole, al fratello Tiberio.

Galeazzo assieme a Tiberio prese parte alla spedizione napoletana contro Siena ed arrivò in Toscana per via mare, ma subito, per ordine del Vicerè, fece ritorno in patria, assieme agli altri cavalieri, senza partecipare all’impresa.

Morì ucciso, molto probabilmente a Napoli, il 5 giugno 1553 in circostanze piuttosto oscure, dai fratelli Giovan Battista e Giovanni Antonio de Alagno, come si evince da una procura che le sorelle di Galeazzo, Diana, Lucrezia e Livia, rilasciarono il 2 Novembre 1559 ad un tale Giovanni Monaco di Napoli, per muovere causa agli uccisori di Galeazzo. Così moriva di morte violenta, a trentatrè anni, dopo una breve esistenza intessuta di passioni violente, questa singolare figura dì ribelle, gentiluomo e ribaldo, poeta e masnadiero.


(1) Notizie ricavate nell’Archivio di Stato di Napoli dal Prof. Carlo De Frede.

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