Considerazioni sulla “Questione meridionale”

Considerazioni sulla “Questione meridionale”
Uno dei problemi più complessi e annosi della storia d’Italia dall’unità ai nostri giorni è stato, ed è, la «questione meridionale», la cui genesi si verifica già al momento dell’unità a causa delle differenze geografiche, economiche, sociali, politiche.
Ed a tutt’oggi, purtroppo, occorre prendere atto che esistono due Italie ancora diverse e che recriminano:
• il Sud di aver contribuito (economicamente e col lavoro) allo sviluppo e benessere della “padania” bossiana;
• il Nord di aver sprecato al Sud risorse non utilizzate a dovere, finite nelle mani della criminalità organizzata e di politici inetti o corrotti.
Sono però trascorsi 150 anni e quelle diversità, di opinioni e di sviluppo, non sono state ancora colmate, anzi in alcuni momenti aggravate, tanto che negli ultimi anni si è minacciato anche la possibile divisione dello stato unitario.
La tradizione meridionalistica classica raffigurava una differenza marcata tra i due territori: l’uno nel suo dinamico sviluppo, l’altro nella sua stagnante arretratezza.
L’immagine delineata era cioè quella di un Nord come terra di avanzato e diffuso progresso e di un Sud come area di altrettanto generalizzato sottosviluppo..
Secondo una visione della storia d’Italia, diciamo così, «nordista», derivava la tesi secondo cui:
• l’Italia Settentrionale si sarebbe sviluppata soprattutto, se non esclusivamente, grazie alle proprie forze;
• che già prima dell’unità aveva raggiunto un grande vantag¬gio nei confronti del Sud;
• che successi¬vamente fu capace di industrializzarsi nella misura che tutti conoscono, senza troppo avvalersi dei vantaggi offerti dalla costituzione di un vasto mercato nazionale e della politica economica dello stato unitario;
• che anzi, se si considera la palla al piede del ristagno prima e poi del pa¬rassitismo meridionale, l’Unità avrebbe più rallentato che favorito quello sviluppo.
Da una valutazione opposta, riduttiva delle differenze preunitarie, sono derivate invece tesi meridionalistiche che si potrebbero definire “Sudiste” o “ borboniche” e in base alle quali il Nord avrebbe realizzato la sua modernizzazione ed il suo sviluppo economico grazie al sacrificio decisivo del Sud, il quale sarebbe stato bloccato nelle sue possibilità di sviluppo dalla politica economica dello stato unitario.
Questo nuovo soggetto, infatti, per eliminare il debito accumulato dal Piemonte nel decennio preunitario per dotarsi di una rete di infrastrutture di livello europeo, avrebbe:
1. Usufruito subito del tesoro borbonico per scaricare gran parte degli one¬ri della modernizzazione settentrionale sul Mezzogiorno, che prima dell’unità aveva contratto un debito pubblico assai più contenuto.
2. Attuato poi una pressione fiscale molto più accentuata di quella del soppresso regime borbonico meridionale, per reinvestire in misura preminente al Nord le risorse così raccolte, ed avrebbe continuato a trasferire capitali dal Mezzogiorno al Centro-Nord.
3. Imposto nel 1860 il liberismo do¬ganale al Sud appena annesso, mettendo in crisi gran parte dell’apparato manifatturiero meridionale.
4. Adottato nel 1887 il protezionismo industriale e granario, provocando la conseguente guer¬ra commerciale con la Francia e quindi un più difficile collocamento dei prodotti specializzati dell’agricoltura meridionale sul mercato inter¬nazionale.
Il grande sviluppo dell’industria italiana nel periodo giolittiano, la sua crescita nel corso della grande guerra, la sua ristrutturazione nel primo dopoguerra e la sua veloce espansione negli anni ‘20, furono momenti significativi di una crescita degli impianti produttivi verificatasi quasi tutta al Centro-Nord e soprattutto nel triangolo industriale Milano-Torino-Genova.
Solo progressi nella diffusione dell’istru¬zione possono rinvenirsi anche al Sud: L’analfabetismo nel 1911 risultava sceso a 58,9 per cento per abitanti di età superiore a sei anni, con un calo quindi di quasi 30 punti rispetto all’87,1 del 1861.
Ma il divario dal Nord era diminuito solo di poco, essendo passato il corrispondente tas¬so settentrionale dal 67 al 21,8.
Guerra, dopoguerra e fascismo, al di là di tutte le profonde trasformazioni tentate, videro permanere una costante differenziazione dei due grandi territori nazionali, l’uno sem¬pre più industrializzato, l’altro sempre più agricolo.
Nel periodo fascista, inoltre, nel Mezzogior¬no venne a mancare la capacità di esportazione di prodotti agricoli specia¬lizzati. La questione meridionale invece di essere stata risolta, come voleva far credere il fascismo, si aggravò ancora, in quanto in realtà il Mezzogiorno trovò mag¬giori difficoltà nel proporre i suoi prodotti ed espandersi, senza concreti aiuti statali.
I successivi governi repubblicani vollero eliminare i guasti della tariffa industriale del 1887, favorendo i rapporti commerciali con l’estero, accelerando la riforma agraria e dando attuazione all’intervento straordinario, convinti di poter aiutare anche nel Mezzogiorno l’industrializzazione nei settori pesanti e di base, che sempre era stata presente solo nel Nord.
Ciò comportò finalmente una certa inversione della direzione dei flussi della spesa pubblica e della di-stribuzione delle risorse rispetto all’Ottocento ed ai primi decenni del Novecento. Pur non volendo credere alle cifre indicate da Francesco Saverio Nitti, un consistente trasferimento di risorse dal Sud al Nord nell’ultimo quarantennio dell’Ottocento attraverso la finanza statale vi era stato ed aveva favorito una maggiore concentrazione di risorse e di ricchezza nel Nord.
Nel dopoguerra, quindi, un certo flusso di mezzi finanziari è andato da Nord verso Sud, e, a partire dalla metà degli anni 1960, per la prima volta dall’unità il divario cominciò a ridursi.
A metà degli anni Settanta il dislivello nella distribuzione territoriale della ricchezza all’interno del paese ha toccato i suoi minimi storici del dopoguerra e lo squi¬librio Nord-Sud, sul piano strettamente economico, era ormai simile a quello esistente in tutti i paesi europei più progre¬diti: lo scarto massimo di prodotto interno pro-capite tra regione più ricca e regione più povera era in Italia di 2,4, con¬tro il 2, della Germania e il 2,4 della Francia.. Poi, in modo inaspettato, quello squilibrio si manifesta in tutta la sua gravità.
È doveroso quindi ricordare che l’uso clientelare e distorto delle risorse dell’intervento straordinario non può divenire una condanna della strategia dell’intervento, così come il permanere di una profonda diversità tra Nord e Sud in molti aspetti della vita econo¬mica e civile non può indurre alla condanna di 150 anni di politica economica e delle grandi realizzazioni che essa ha, nonostante tutto, conseguito. Perché se è vero che un divario nella vita economica e civile tra le due parti del paese ancora esiste e quindi una questione meridionale è più che mai aperta, è anche vero che i termini dell’odierna questione non sono più quelli né di quaranta, né, tantomeno, di 150 anni addietro. Il divario odierno si riferisce ad un paese tra i più ricchi del mondo, che ha realizzato, al Nord come al Sud, le più grandi trasformazioni di carattere economico, sociale, civile che la sua storia ricordi e che ha praticamente annullato il divario economico che lo separava nel 1861 dall’Inghilterra e dalle altre aree in via di industrializzazione. Il Sud ha un apparato industriale assai più debole di quello del Nord, ma non è più un’area ad economia quasi esclusivamente agraria come nell’ ‘800. Le differenze in termini di prodotto interno lordo pro-capite sono ancora sensibili, tuttavia dal punto di vista dei consumi delle famiglie e dei fondamentali indicatori del livello della vita civile (strade, ferrovie, analfabetismo e tasso di scolarità medio) gli squilibri del tempo dell’unità sono diminuiti di molto.
Disoccupazione, sviluppo e criminalità nel Mezzogiorno sono oggi il problema più grande che l’Italia unita deve risolvere.
Accurate ricerche, di recente venute alla luce, confermano la validità del “cahier de doleances” dei meridionali sui primi decenni unitari e poi ancora nel secondo cinquantennio, mentre sugli sprechi degli ultimi tre o quattro decenni il nord ha pure le sue ragioni.
Ma che senso ha continuare a recriminare ed accusare?
Una classe dirigente degna di questo nome dovrebbe far tesoro degli errori passati e cercare di rimediare per colmare differenze e ritardi!
E invece prevale la “propaganda” politica dei partiti, finalizzata al loro tornaconto elettorale, che distraendo l’opinione pubblica meno attenta e “tifosa”, paralizza e rinvia ogni tentativo di valida risoluzione dei problemi.

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