Anniversari in pochi cenni: CICERONE

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2122 anni fa la nascita di CICERONE (3 gennaio del 106 a. c –3 gennaio 2016)
Marco Tullio Cicerone (in latino, Marcus Tullius Cicero) nasce il 3 gennaio del 106 avanti Cristo a Ponte Olmo, località situata nel comune di Arpinum, a un centinaio di chilometri a sud-est di Roma. Appartenente alla piccola nobiltà locale (la classe equestre), è figlio di Marco Tullio Cicerone il Vecchio e di Elvia, donna di casato nobile.
Sin da ragazzo dimostra un’intelligenza fuori dal comune, e viene condotto a Roma dal padre, dove è introdotto nel circolo degli oratori più bravi dell’epoca, tra cui Marco Antonio e Lucio Licinio Crasso.
Formatosi nella giurisprudenza presso il giurista Quinto Mucio Scevola, nel 91 avanti Cristo incontra a Roma il filosofo epicureo Fedro, mentre quattro anni più tardi entra in contatto con Apollonio Molone, maestro di retorica, e Filone di Larissa, accademico che esercita una profonda influenza nei suoi confronti.
Nell’81 avanti Cristo esordisce ufficialmente nella carriera forense con la “Pro Quinctio”, la sua prima orazione pubblica che lo vede sfidare Quinto Ortensio Ortalo, l’oratore più famoso dell’epoca.
Tra il 79 e il 77 avanti Cristo vive in Grecia (e più tardi si sposterà in Asia Minore): il suo soggiorno ad Atene gli consente di visitare l’Accademia di Platone e altri luoghi sacri della filosofia.
Tornato a Roma, comincia la sua carriera politica vera e propria: Nel 76 avanti Cristo si presenta come candidato alla prima magistratura del cursus honorum, la questura.
E’ questore di Lilibeo, in Sicilia, e concluso il mandato, si vede affidata la causa contro Verre, propretore accusato di avere dissanguato l’isola, che proprio grazie all’orazione di Cicerone è costretto all’esilio.
Anche grazie al successo delle “Verrine”, egli ottiene un ruolo molto importante sulla scena politica: nel 69 avanti Cristo, all’età di trentasette anni, viene eletto alla carica di edile curule, mentre tre anni più tardi è eletto all’unanimità pretore.
Nel 65 avanti Cristo si candida al consolato, venendo eletto l’anno successivo insieme con Gaio Antonio Ibrida, patrizio zio di Marco Antonio.
Nel corso del consolato, l’arpinate è chiamato a fare i conti con il tentativo di congiura attuato dal nobile impoverito Catilina, aspirante console: bloccato nei suoi tentativi di ottenere il consolato con processi dubbi, se non addirittura con veri e propri brogli elettorali, questi è intento a ordire una congiura che ha lo scopo di rovesciare la repubblica con il sostegno della plebe e dei nobili decaduti.
Cicerone, venuto a conoscenza del pericolo, fa sì che il senato promulghi un “senatus consultum ultimum de re pubblica defendenda”, vale a dire un provvedimento attraverso il quale ai consoli vengono attribuiti poteri speciali.
Dopo essere scampato a un tentativo di attentato messo in atto dai congiurati, convoca il senato nel tempio di Giove Statore: è qui che pronuncia la cosiddetta “Prima Catilinaria”, cioè l’accusa contro Catilina,
« Fino a quando, Catilina, abuserai della nostra pazienza? »
il quale – vedendo che i suoi progetti sono stati svelati – non può fare altro che abbandonare Roma.
Cicerone, che non smise mai di vantare il proprio ruolo determinante per la salvezza dello stato (si ricordi il famoso verso di Cicerone sul suo consolato: Cedant arma togae, trad: “che le armi lascino il posto alla toga [del magistrato]”), grazie al ruolo svolto nel reprimere la congiura, ottenne un prestigio incredibile, che gli valse addirittura l’appellativo di pater patriae.
Dopo l’uccisione di Cesare, di cui fu subito ritenuto ispiratore, egli diventa uno dei capi della fazione degli optimates, mentre la fazione dei populares viene guidata da Marco Antonio: tra i due i rapporti sono tutt’altro che sereni, anche per la diversa visione politica che li caratterizza.
L’uno, Cicerone, difende i propositi e gli interessi della nobilitas del senato ed è a favore della repubblica, mentre l’altro, Antonio, seguendo l’esempio di Cesare vorrebbe instaurare un potere di tipo monarchico.
Con l’ascesa del giovane Ottaviano, erede designato di Cesare, Cicerone decide di schierarsi ancora più evidentemente contro Antonio, e tra il 44 e il 43 avanti Cristo pronuncia contro di lui le “Filippiche” (orazioni che prendono il nome da quelle omonime che Demostene aveva pronunciato contro Filippo II di Macedonia).
Antonio, tuttavia, ottiene l’insperata collaborazione di Ottaviano, con il quale costituisce un triumvirato (con loro c’è anche Marco Emilio Lepido).
Cicerone viene, quindi, inserito nelle liste di proscrizione, e in pratica condannato a morte; lasciata Roma, decide di ritirarsi a Formia, dove viene raggiunto da alcuni sicari spediti da Antonio dai quali viene decapitato: è il 7 dicembre del 44 avanti Cristo.
« Prominenti ex lectica praebentique immotam cervicem caput praecisum est. Nec satis stolidae crudelitati militum fuit: manus quoque scripsisse aliquid in Antonium exprobrantes praeciderunt. »
« Sporgendosi dalla lettiga ed offrendo il collo senza tremare, gli fu recisa la testa. E ciò non bastò alla sciocca crudeltà dei soldati: essi gli tagliarono anche le mani, rimproverandole di aver scritto qualcosa contro Antonio. »
(Livio – Ab Urbe condita libri, CXX – cit. in Seneca il Vecchio, Suasoriae, 6,17) 
La testa e le mani recise furono, per ordine di Antonio, esposte nel Foro.
Esponente di un’agiata famiglia dell’ordine equestre, Cicerone fu una delle figure più rilevanti di tutta l’antichità romana e sicuramente non meritava un simile oltraggio.
La sua vastissima produzione letteraria, che va dalle orazioni politiche agli scritti di filosofia e retorica, oltre a offrire un prezioso ritratto della società romana negli ultimi travagliati anni della repubblica, rimase come esempio per tutti gli autori del I secolo a.C., tanto da poter essere considerata il modello della letteratura latina classica.
Attraverso l’opera di Cicerone, grande ammiratore della cultura greca, i Romani poterono anche acquisire una migliore conoscenza della filosofia. Tra i suoi maggiori contributi alla cultura latina ci fu senza dubbio la creazione di un lessico filosofico latino: Cicerone si impegnò, infatti, a trovare il corrispondente vocabolo in latino per tutti i termini specifici del linguaggio filosofico greco.
Come politico, Cicerone era attaccato al governo repubblicano per tradizione e per ricordo, rammentando le grandi cose che esso aveva fatto e a cui egli, come molte altre persone, doveva le sue dignità, il suo grado sociale e il nome; non poteva dunque pensare a rassegnarsi così facilmente alla sua caduta, anche se la libertà effettiva non esisteva più a Roma, e non ne restava che l’ombra.
Non bisogna biasimare coloro, come Cicerone, che vi s’attaccano e fanno sforzi disperati per non lasciarla perire, poiché quest’ombra, questa apparenza li consola della libertà perduta e infonde loro qualche speranza di riconquistarla.
A mio avviso anche per lui può valere ciò che Dante nella Commedia fa dire a Catone: Libertà vò cercando, ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta. 
Questo è ciò che Lucano fa dire a Catone in quei versi ammirevoli che esprimono i sentimenti di tutti coloro che, senza nascondere la triste condizione della Repubblica, si ostinarono a difenderla fino alla fine: «Come un padre, che ha or ora perduto il figlio, prova una sorta di piacere a dirigere i riti funebri, accende con le sue mani il rogo, non lo lascia che a malincuore e il più tardi possibile, così, Roma, io non t’abbandonerò prima di averti tenuta morta tra le mie braccia. Io seguirò fino alla fine il tuo solo nome, o libertà, anche quando non sarai più che un’ombra vana».
Cicerone fu, inoltre, sostenitore dell’ideale politico della concordia ordinum (intesa tra il ceto equestre e senatorio divenuta poi concordia omnium bonorum, ovvero concordia di tutti i cittadini onesti), e la esaltò, in particolare, nella quarta orazione contro Catilina: allora, per la prima volta nella storia repubblicana, i senatori, i cavalieri ed il popolo si trovarono d’accordo sulle decisioni da prendere, decisioni dalle quali dipendeva la salvezza dello stato.
Cicerone fu il primo degli autori romani a comporre opere filosofiche in latino: ne andava, infatti, molto fiero, ma si scusava, allo stesso tempo, di aver dedicato alla filosofia così tanto tempo.
Ma il gusto per le speculazioni filosofiche era totalmente estraneo alla società romana: il vir era, d’altronde, un uomo d’azione.
Da giovane, Cicerone studiò d’impulso l’epicureismo, dottrina che aveva avuto numerosi discepoli anche a Roma, tra cui Lucrezio.
Più tardi, sotto l’influsso di altri maestri, abbracciò, almeno in parte, lo stoicismo, ma non ne fu mai un convinto sostenitore: come altri al suo tempo, elaborò una personale fusione tra le due filosofie, in modo eclettico.
Mostrò, tuttavia, forti preferenze per la dottrina accademica insegnatagli da Filone: Questa particolare mescolanza fra più filosofie fu la vera filosofia di Cicerone.
Come filosofo Cicerone é un eclettico, che, applicando il criterio logico degli Accademici, la verisimiglianza o probabilità (e probabile gli sembra tutto ciò che ha conferma nel senso comune o consenso delle genti, spiegato con la presenza in tutti gli uomini di nozioni innate), sceglie e riunisce temi e concetti della filosofia greca.
Ma in questo eclettismo, determinato sempre meglio nel suo significato positivo della ricerca delle fonti greche (Panezio, Posidonio, Filodemo, Antioco di Ascalona, ecc.), è la grandezza della sua opera: opera poderosa di assimilazione della cultura greca, che continuava un indirizzo già iniziatosi nel circolo di Scipione Emiliano, ma si cimentava ora in un campo pressoché nuovo (unico antecedente notevole il poema di Lucrezio), per il quale occorreva creare perfino il mezzo di espressione, il linguaggio filosofico; opera d’importanza decisiva nella storia della cultura occidentale.
Dal vasto campo della speculazione greca, conformemente al genio suo e dei Romani, Cicerone trasceglieva solo ciò che potesse assumersi a norma di vita, e tutto commisurava, e adeguava in fondo, alla sua umanità e urbanità; ma proprio per questo molte voci di filosofi greci acquistarono il potere di risonare ancora e di agire a lungo in ambienti – pagani, cristiani, umanistici – ignari talvolta della lingua greca, lontani comunque dalle sottigliezze speculative di quella filosofia.
Lo stile unico di Cicerone., particolarmente quello delle orazioni e dei trattati (le lettere sono soprattutto per noi moderni un cospicuo esempio del sermo familiaris latino), divenne ben presto esemplare; sicché a Quintiliano sembrava riprovevole l’ardire di Seneca che volutamente s’era allontanto da quei canoni di simmetria e sonorità; molti tra gli autori cristiani (s. Girolamo sopra tutti) modellarono la loro prosa sull’esempio ciceroniano, che influì poi per questo tramite sulle artes dictandi del Medioevo. Più forte ancora fu l’influsso di Cicerone sullo stile degli umanisti (ciceronianismo).
Non è questa la sede per parlare delle sue numerosissime opere filosofiche, politiche, oratorie o retoriche: chi vorrà approfondire potrà farlo facilmente sui tanti testi a lui dedicati.

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